Lo smart working è ormai diventato la normalità per milioni di lavoratori in tutto il mondo, tanto che molte aziende stanno pensando di adottarlo in maniera permanente. Tuttavia, accanto ai numerosi vantaggi che indubbiamente presenta, pone anche alcune criticità che stanno delineando quella che sembra emergere come la tendenza del prossimo futuro: il lavoro ibrido.
Nel corso dell’ultimo anno l’emergenza Coronavirus ha portato le aziende e i professionisti a dover improvvisamente ripensare il proprio modo di lavorare, sfruttando al meglio le possibilità offerte dalle nuove tecnologie e sperimentando in prima persona lo smart working.
Ancor prima del Covid-19, le aziende più attente alle evoluzioni in ambito lavorativo avevano già disposto uno o anche due giorni a settimana da casa per i dipendenti le cui funzioni fossero compatibili con questa modalità. Il diffondersi del virus ha dunque accelerato ed intesnsificato la tendenza già in atto, estendendone la portata.
Diverse realtà hanno iniziato a pensare di adottarlo in modo permanente, almeno per buona parte della forza lavoro anche se questa decisione renderebbe necessario riprogettare con precisione i processi di lavoro poiché, per sua natura, lo smart working rappresenta una modalità di lavoro flessibile che si misura in risultati, non in ore lavorate o passate davanti al pc, richiedendo un livello di responsabilizzazione orizzontale - ovvero di tutti i dipendenti e collaboratori, non solo dei manager o dei vertici - estremamente elevato. Dunque, diventa indispensabile avere una metrica condivisa per valutare e definire gli obiettivi, i tempi per raggiungere determinati risultati e per sapere chi fa una certa attività ed entro quando.
Non tutti però concordano sull’adozione permanente dello smart working perché, accanto a numerosi vantaggi, il lavoro da remoto solleva tutta una serie di problematiche che non possono essere ignorate. Vediamo insieme quali sono i pro e i contro.
I pro dello smart working
Lo smart working offre numerosi vantaggi sia ai lavoratori che alle aziende.
Il datore di lavoro, a fronte di un investimento iniziale per fornire gli strumenti necessari al lavoro in mobilità (telefoni e computer portatili, per esempio), vede notevolmente ridursi i costi di funzionamento dei luoghi di lavoro (eventuali affitti, utenze, mense, igienizzazione dei locali, ecc.) e vede aumentare la produttività dei dipendenti. Un interessante documento pubblicato da Pwc che mette a confronto due sondaggi sul tema del remote working, realizzati rispettivamente nel mese di giugno 2020 e nel mese di dicembre 2020 su oltre 118 dirigenti e 1.200 impiegati statunitensi, rivela infatti non solo come lavorando da casa sia aumentata la produttività in generale, ma anche come, a distanza di qualche mese dal primo rilevamento, il feedback positivo dei partecipanti sia cresciuto ulteriormente: a dicembre il 52% dei datori di lavoro poteva ritenersi soddisfatto del livello produttivo raggiunto contro il 44% di giugno, per i dipendenti invece il riscontro in termini di punti percentuale è stato ancora più ampio passando dal 22% di giugno al 38% di dicembre.
Dal canto loro, i lavoratori risparmiano il tempo e denaro necessari per il viaggio tra casa e ufficio, abbattendo i tempi morti e lo stress di spostamenti poco confortevoli o nel traffico, e gestendo in maniera più flessibile i propri impegni lavorativi e la vita privata. Il fatto di lavorare in casa propria consente inoltre di poter organizzare liberamente la propria postazione e di lavorare in un ambiente familiare e costruito a propria misura. Non ultimo, lo smart working è amico dell’ambiente poiché, riducendo gli spostamenti diminuisce , di conseguenza, le emissioni inquinanti e l’impatto sul traffico. Si riduce, inoltre, anche la spazzatura prodotta durante l’attività lavorativa e nei pranzi fuori casa.
… e i contro
Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica, e accanto ai numerosi punti a favore, si pongono anche diversi svantaggi.
In primis, molti non sono capaci (o non hanno la possibilità) di mantenere separati gli spazi e gli ambiti della giornata da dedicare al lavoro da quelli per la famiglia, distraendosi continuamente durante l’orario di lavoro oppure, al contrario, dedicandosi al lavoro anche nel tempo in cui ci si dovrebbe concentrare sulla famiglia. Il fatto di essere connessi da casa può anche generare l’equivoco di una reperibilità non-stop comprese le sere e i fine settimana, motivo per il quale in tanti sostengono di “lavorare di più” rispetto a quanto facevano in ufficio.
Può accadere di sentirsi “tagliati fuori” da informazioni e contatti da condividere con i colleghi e i superiori e di avvertire la mancanza dello scambio di idee e di spunti tipici del lavoro in team.
È alto anche il rischio di isolamento ed alienazione di chi vive da solo h24 dentro le mura domestiche: non a caso, infatti, sono aumentati i casi di depressione tra coloro che stanno lavorando da remoto ormai da mesi.
Alcuni potrebbero sperimentare anche difficoltà tecniche dovute a problemi di connessione: non tutti dispongono infatti di un’adeguata connessione di rete che possa reggere eventuali sovraccarichi.
Infine, per ovvie ragioni, lo smart working si presta solo a determinati settori mentre alcuni tipi di lavoro devono necessariamente essere svolti in presenza.
Trovare la giusta quadra, dunque, appare estremamente complicato e, come spesso accade, la soluzione migliore dovrebbe essere cercata nel mezzo. La tendenza che si va delineando adesso è verso una forma ibrida di lavoro che mixa all’occorrenza lavoro a distanza e presenza in ufficio.
Molteplici studi dimostrano infatti come in generale datori e dipendenti siano d’accordo nel prevedere un rientro in ufficio flessibile, tuttavia ciò che invece non è del tutto condivisa è l’idea di quanto tempo vada trascorso in sede e quanto a casa. Intervistando nel mese di giugno 800 dirigenti da tutto il mondo, McKinsey ha rilevato che solo il 7% di loro era disposto a concedere tre o più giorni a settimana di lavoro da remoto. Più generosi verso lo smart working i risultati dello studio Pwc sopra citato secondo il quale tuttavia solo il 24% dei dirigenti si aspetta che molti o tutti i dipendenti dell’ufficio lavorino da remoto una quantità significativa del loro tempo. La motivazione di questa scelta andrebbe a risiedere nella paura di perdere parte della cultura aziendale distintiva, oltre che a produttività e spirito di collaborazione tra dipendenti. Di diverso avviso, i dipendenti i quali hanno affermato per il 55% di voler lavorare da remoto almeno tre giorni alla settimana, con un il 29% di loro che vorrebbe lavorare da casa cinque giorni su cinque.
Se è ancora difficile definire con cura quali saranno le caratteristiche del lavoro del futuro, una cosa appare certa però: indietro non si torna e il Covid-19 lascerà una traccia indelebile nella vita di tutti noi che, volente o nolente, definirà il nostro “new normal” ed impatterà anche sul nostro modo di lavorare.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Miriam Castelli, redazione@exportiamo.it
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