Sulle due sponde della Manica, sono settimane di cambiamento. Giovedì 4 luglio, gli inglesi hanno votato, mettendo la parola fine a 14 anni di governo conservatore e consegnando ai laburisti 412 seggi, mentre il secondo turno delle legislative in Francia di domenica scorsa ha gettato il Paese in uno stallo politico dall’esito ancora incerto. Cosa dovremo aspettarci per il futuro?

I risultati dei due Paesi sono stati per certi versi simili, per altri discordanti. Sia in Francia che nel Regno Unito i partiti che hanno raccolto più seggi sono stati quelli di sinistra o centrosinistra, ma mentre nel Regno Unito il partito dei Laburisti ha ottenuto un’ampia maggioranza per governare, in Francia la distribuzione dei seggi in Parlamento al momento non permette di individuare una maggioranza di partiti in grado di governare. 

Le elezioni nel Regno Unito

Le prime elezioni nel Regno Unito post-Brexit sono state storiche sotto molti punti di vista. Per la valanga di seggi conquistati dal Partito Laburista. Per il tracollo senza precedenti nella storia del Partito Conservatore. Per il ritorno nell’ombra del Partito Nazionale Scozzese. Per la prova elettorale più convincente dei Liberal Democratici in poco più di 30 anni di esistenza politica e per la comparsa sulla scena dei sovranisti di Reform Uk di Nigel Farage (l’architetto della Brexit eletto all’ottavo tentativo). Ma anche per altri dati che offrono significativi spunti di riflessione: quella appena eletta sarà la Camera dei Comuni con la maggiore rappresentanza femminile di sempre – 242 deputate – ma a fronte di un’affluenza al voto tra le più basse dal 1885, ferma al 59,8%.

“Ce l’abbiamo fatta! Il cambiamento inizia ora“, sono state le prime parole del nuovo Primo Ministro Keir Starmer. Con 412 seggi conquistati alla Camera dei Comuni – la migliore performance elettorale dopo quelle di Tony Blair nel 1999 e nel 2001 – i Labour hanno ora un’ampissima maggioranza per governare (la soglia minima è di 326).

Il contraltare della “valanga” (questa l’espressione più usata dai commentatori) di seggi laburisti è la cocente sconfitta per i Tories del premier uscente Rishi Sunak, crollati a 121 seggi alla Camera dei Comuni (-244). Si tratta del peggior risultato nella storia dei conservatori britannici dalla fondazione del partito nel 1834, che arriva dopo 14 anni di governo e 5 diversi gabinetti, da David Cameron tra il 2010 e il 2016 fino agli ultimi due anni di Sunak, passando da Theresa May Boris Johnson a cavallo dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea e i fallimentari 45 giorni di Liz Truss (non rieletta in questo turno) nell’autunno 2022. Il risultato ai limiti del catastrofico dei conservatori (più di 7 milioni di voti persi dal trionfo del 2019) può essere considerato la parabola del suicidio politico di Sunak, che a fine maggio aveva indetto elezioni anticipate, anche se i Tories rimarranno ancora il principale partito di opposizione ai Labour.

La vittoria dei Labour è certamente il risultato dello scontento nei confronti dei governi conservatori succedutisi dal 2010 a oggi, ma è anche effetto di un voto estremamente frammentato, ricondotto a un risultato reso univoco solo dal sistema elettorale, il cosiddetto modello Westminster che si basa sul principio “First past the post”, il primo prende tutto, quindi un maggioritario secco privo di qualsivoglia componente proporzionale, che favorisce i partiti più grandi a svantaggio di quelli più piccoli.

La vittoria schiacciante di Keir Starmer potrebbe far pensare che la strada del nuovo premier inglese sarà in discesa. Tuttavia, guardando la realtà del Paese, probabilmente non sarà così. Starmer eredita uno stato che negli ultimi, recenti, indicatori economici mostra qualche segnale di ripresa ma è sostanzialmente allo stremo, ed eroso dalle disuguaglianze. Il potere di acquisto è stato impoverito da un’inflazione superiore a quella dei vicini europei. Ai disastri del Covid e della guerra in Ucraina, con i prezzi dell’energia alle stelle, si è infatti aggiunto in Gran Bretagna il “dazio Brexit”, cioè i costi supplementari dovuti al ritorno ai controlli doganali. Una scelta di cui gli inglesi parrebbero oggi essersi largamente pentiti: a maggio scorso, il 55% si dichiarava convinto che lasciare l’Unione europea sia stato un errore, e solo il 31% affermava che era stata una buona idea. L’immigrazione poi non è diminuita, anzi è aumentata sia quella regolare sia quella dei clandestini sulla Manica. L’imbarazzante minaccia di deportazione in Ruanda non è servita da deterrente per i migranti portati dai trafficanti dalle coste francesi. Sul versante legale le restrizioni per i visti di lavoro e di studio hanno disincentivato gli arrivi degli Europei, creando serie mancanze di manodopera nell’ospitalità e sanità. È stato così lasciato campo aperto agli extracomunitari. I nuovi residenti ogni anno sono addirittura raddoppiati rispetto all’ultimo periodo pre-Brexit: meno Europei, più dal resto del mondo.

Proprio su questi due temi (Brexit e immigrazione), considerati tossici e divisivi, Starmer ha volutamente evitato di pronunciarsi durante la campagna elettorale, limitandosi a promettere di combattere l’inflazione, far ripartire l’economia, ridurre le diseguaglianze, investire nella sanità e in altri servizi pubblici una volta vanto globale e oggi allo sbando, senza veramente precisare come intenda ottenere tutto ciò e quali saranno le contropartite da accettare per finanziare queste politiche. Ora, però, tutti questi nodi dovranno venire dolorosamente al pettine e non sarà un compito facile, né dal risultato scontato.

Le elezioni in Francia

Storica, ma per altri versi, anche la tornata elettorale che si è conclusa domenica scorsa sull’altro versante della Manica. Il 7 luglio, infatti, si è tenuto il secondo turno delle elezioni legislative francesi, vinte a sorpresa dalla coalizione di sinistra Nouveau Front Populaire (NFP) e perse dal principale partito di estrema destra, il Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen e Jordan Bardella, nonostante al primo turno fosse stato di gran lunga il più votato con oltre il 30% dei voti.

Il Rassemblement National, in realtà, è stato il partito che ha preso il maggior numero di voti sia al primo che al secondo turno, ma visto il sistema elettorale maggioritario con collegi uninominali usato in Francia, prendere più voti su base nazionale non implica in alcun modo ottenere più parlamentari: per essere eletto un candidato deve prendere più voti degli altri candidati nel suo collegio elettorale, indipendentemente da quanti voti ha preso il partito in totale. La differenza fra voti e collegi ottenuti al secondo turno è anche data dal fatto che il Nuovo Fronte Popolare ed Ensemble hanno ritirato quasi tutti i loro candidati arrivati terzi ai ballottaggi e che quasi sicuramente non avrebbero vinto, evitando di disperdere voti e concentrandoli sui candidati che si opponevano a quelli di estrema destra, mentre Rassemblement National li ha mantenuti ovunque, non avendo un altro partito con cui adottare la stessa strategia.

Di conseguenza, il risultato delle elezioni ha portato a una composizione del parlamento estremamente frammentata e a una situazione di fatto inedita per la politica francese, che potrebbe portare a uno stallo istituzionale. La formazione di un governo in Francia, sostenuto dall’Assemblea Nazionale, sarà difficile. Per avere la maggioranza in aula servono infatti 289 seggi e nessuno degli schieramenti da solo arriva a questo numero. È possibile anche formare un governo di minoranza, ossia privo della maggioranza dei seggi: in questo caso però il governo dovrà trovare la maggioranza dei voti dei partiti su singole proposte di legge. Per la Francia si apre così un periodo di incertezza che non ha eguali nella storia della Quinta Repubblica, e che ricorda più il caos della Quarta (1946-1958), quando 24 governi si succedettero in soli 13 anni. Non a caso, la parola più usata dai commentatori per definire l’esito di queste elezioni è prioprio “caos”.

Ciò che è certo è che il presidente Macron non potrà sciogliere le camere nei prossimi dodici mesi, e che dovrà dunque andare alla ricerca di una soluzione all’interno di questa Assemblea nazionale. Altrettanto certo è che per trovare una maggioranza che escluda il Rassemblement National sarà necessario imboccare una strada molto stretta e in salita. Non solo perché per essere larga questa maggioranza dovrà tenere dentro tutti gli altri partiti, o quasi. Ma anche perché il NFP ha incentrato la sua campagna sui fallimenti del macronismo almeno tanto quanto sulla minaccia rappresentata dall’ascesa dell’estrema destra.

In una situazione di questo tipo, gli interrogativi non possono che riguardare anche la questione della spesa pubblica. E qui è inevitabile constatare quanto le promesse elettorali del NFP fatichino a conciliarsi con i già dissestati conti pubblici francesi. Ad aprile, l’IMF stimava che quest’anno il deficit pubblico francese si sarebbe assestato intorno al 5% del PIL. In leggera riduzione rispetto al 5,5% dell’anno scorso, ma ancora lontano dalla soglia del 3% richiesta da Bruxelles, che proprio quest’anno ha riattivato le regole (rinnovate) del Patto di stabilità e crescita e che ha già annunciato l’intenzione di aprire la procedura d’infrazione nei confronti della Francia a metà luglio. Inoltre, anche se le regole fiscali europee fossero ancora sospese, le traiettorie di deficit e debito sarebbero insostenibili: in vent’anni, il debito francese è cresciuto dal 66% al 112% del PIL. 

Qui, le misure proposte dal NFP rischierebbero di aggravare ulteriormente il problema. Per esempio, la promessa di mettere un tetto al prezzo dei beni “essenziali”, come l’energia o alcuni beni alimentari, costerebbe 24 miliardi di euro l’anno. Ulteriormente costosa sarebbe la marcia indietro sulla riforma delle pensioni dell’anno scorso, riportando l’età pensionabile da 64 a 62 anni (in Italia siamo a 67). 

In tutto, il costo delle proposte potrebbe superare i 100 miliardi di euro nel 2025, ovvero oltre il 3% del PIL in più. Per finanziarlo almeno in parte, il NFP propone una raffica di nuove tasse (sui patrimoni, sugli asset finanziari, sulle imprese e sui redditi più alti). Così il rischio per un nuovo governo sarebbe duplice. Se cedesse alle richieste di maggior spesa, potrebbe essere trascinato in un “momento Truss” dai mercati – dal nome della premier britannica su Liz Truss su citata e dal suo “mini budget” che ne causò la caduta dopo soli 44 giorni di governo. Se, invece, il primo ministro designato si dimostrasse più intransigente, rischierebbe di alienarsi rapidamente la parte più oltranzista del NFP ed esporre a un rapido esaurimento questa esperienza politica di “grande coalizione”. 

Comunque vada, insomma, in Francia proseguirà l’instabilità cominciata due anni fa, dopo elezioni che avevano privato Macron della sua ampia maggioranza. Ma con sfide e rischi moltiplicati.

Fonte: a cura della Redazione di Exportiamo, redazione@exportiamo.it

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