Ungheria, “democrazia illiberale” in cambio di benessere?

Ungheria, “democrazia illiberale” in cambio di benessere?

15 Luglio 2019 Categoria: Focus Paese Paese:  Ungheria

L’Ungheria ha conosciuto negli ultimi anni un notevole progresso economico che ha migliorato le condizioni della popolazione locale e sta attirando nel Paese un sempre maggiore numero di imprese straniere. Il prezzo da pagare è però quello di una forte restrizione delle libertà democratiche, a partire da quella di espressione.

Crescita economica da un lato e deriva autoritaria dall’altra: è su questi due binari che nell’ultimo decennio sta correndo l’Ungheria di Orban.

L’aprile dello scorso anno infatti, l’ultraconservatore, sovranista e anti-immigrati Viktor Orban con il suo partito Fidesz ha ottenuto 133 seggi su 199, il 45,9 per cento dei voti aggiudicandosi il terzo mandato consecutivo e confermandosi il primo ministro più longevo dell’Unione Europa, dopo la cancelliera tedesca Angela Merkel.

Limiti decisivi alla libertà di stampa, lotta ai musulmani su cui Orban ha concentrato gran parte della sua campagna elettorale, e un muro lungo 175 chilometri per impedire l’ingresso di migranti nel Paese: sono questi alcuni dei punti centrali della politica del “Viktator” (così lo chiamano i suoi oppositori), ideatore della “democrazia illiberale” che s’ispira apertamente alla politica dei presidenti russo e turco, Putin e Erdogan.

Orbán ha capito subito il ruolo fondamentale dei media e si è appropriato di testate giornalistiche e canali televisivi che potessero assicurargli il controllo dell’informazione. Nel 2010 è stato infatti inaugurato un Consiglio per i media che ha trasformato l’editoria pubblica in un mezzo di propaganda. Ma Orbán è andato oltre: ha introdotto anche una tassa sulla raccolta pubblicitaria di tv, radio, giornali e siti Internet, volta a colpire l’unico canale televisivo non al servizio del governo, Rtl Klub, di proprietà del gruppo tedesco Bertelsmann. Da quel momento i media che si sono opposti alle politiche di Orbán sono stati costretti alla chiusura, come i quotidiani Nepszabadsag e lo storico Magyar Nemzet, il settimanale Heti Valasz e la radio Lanchid. Con poche, precise mosse il primo ministro è riuscito a spegnere qualsiasi forma di protesta.

Nel 2011 e nel 2013 sono state apportate rilevanti modifiche alla Costituzione: la Corte Costituzionale è stata esautorata; sono stati vietati nelle radio e nelle televisioni private i dibattiti elettorali; è stata emanata una legge che costringe i neolaureati a rimanere in patria, vietando loro di cercare lavoro all’estero per un periodo di tempo che va dai tre ai dieci anni. A seguito dei provvedimenti di Orbán, alle coppie non sposate, senza figli o omosessuali non vengono riconosciuti gli stessi diritti delle coppie eterosessuali, né la definizione di “famiglia”.

Già nel 2015, per bloccare l’ingresso ai migranti provenienti dai Balcani, il governo ungherese aveva installato una barriera di filo spinato lungo i confini con Serbia e Croazia. Il primo ministro ha poi imbastito le sue campagne elettorali aizzando le folle contro la minaccia islamica e contro lo straniero e il Parlamento ungherese ha approvato una nuova legge, “Stop Soros”, che prevede una tassa del 25% alle donazioni straniere in favore di organizzazioni non governative che supportano i migranti.

Più volte attraverso i media pubblici che lui stesso controlla, Orban ha dato voce alla sua battaglia contro “l’invasione straniera” in arrivo dall’Africa e dal Medio Oriente, definendo i migranti “un pericolo mortale” per la nazione e la cultura cristiana e occidentale. “I migranti sono come la ruggine che consumerà poco a poco il nostro Paese”, “i migranti si prenderanno le nostre donne”, sono solo alcune delle affermazioni spesso ripetute dal premier ungherese.

Con la maggioranza schiacciante ottenuta, Viktor Orban non avrà ostacoli. Potrà continuare la sua politica di “difesa della nazione bianca” e di attacco all’Unione Europea, più volte accusata da Orban per i finanziamenti alle organizzazioni non governative. «L’Unione europea vuole cancellare la nostra tradizione e la nostra religione cristiana», ha più volte tuonato. Anche se in realtà, poi, l’Ungheria è cresciuta proprio e soprattutto grazie ai fondi europei.

Una domanda a questo punto sorge spontanea: perché se la deriva autoritaria è ormai evidente, l’elettorato ungherese continua a sostenerlo? La risposta è duplice.

Il primo motivo per cui quasi metà degli ungheresi continua a sostenere il regime è la paura. Paura del cambiamento e più precisamente paura di un’altra ondata d’immigrazione di massa dopo quella del 2015.

Il secondo, forse ancora più significativo, è che in termini economici il Paese sta attraversando un decennio relativamente prospero, e molte famiglie ne toccano con mano i benefici nonostante una disuguaglianza da record.

Dopo la crisi del 2008, fino a pochi anni fa l’Ungheria era il fanalino di coda dei Paesi europei, ma oggi si attesta tra i primi Paesi europei in termini di dati macroeconomici fondamentali: nel 2018 il PIL ungherese è cresciuto del 4,9%, la Banca Centrale ungherese ha rilevato che il debito è sceso al 70,9% del PIL dal 73,4% del 2017. La stima per il deficit è del 2% rispetto al 2,4% previsto dal governo. Nel 2018 si è registrata una crescita dell’11,3% e i salari reali, sono cresciuti dell’8,3%. Il tasso medio di disoccupazione è stato del 3,7%. Per il 2019 si stima che l’economia del Paese continuerà a crescere ad una media superiore di quella europee.

Un quadro solido ed allettante anche per le imprese estere, attirate non solo dai rilevanti contributi statali per attrarre investimenti, ma favorite soprattutto dall’introduzione nel 2017 della flat tax per le imprese al 9%, che di fatto rende l’Ungheria il Paese con la tassazione più favorevole d’Europa in questo momento.

Rapporti con l’Italia

Quello ungherese si prospetta dunque come uno sbocco commerciale sempre più interessante per le imprese tricolori. Già oggi, dopo la Germania e l’Austria, il nostro Paese è il terzo partner commerciale del Paese magiaro avendovi esportato nel 2018 beni per un valore di 4,9 miliardi di euro, in crescita del +3,5% rispetto al 2017. Secondo le previsioni di Sace l’export del Belpaese dovrebbe ulteriormente crescere del 4,5% entro il 2022.

Inoltre, la presenza imprenditoriale italiana in Ungheria è già rilevante oggi, con 250 aziende che danno lavoro a circa 25.000 dipendenti, fra le quali si segnala ad esempio la San Benedetto presente sul territorio ungherese già dal 2002.

Sono molti infatti, in ragione della complementarietà tra il sistema economico italiano e quello ungherese, i settori in cui oggi la collaborazione è già avviata e che presentano buone opportunità di ulteriore sviluppo e tra questi certamente vanno segnalati l’agroalimentare e la meccanica con particolare attenzione alla componentistica, ma anche i trasporti, la logistica, la chimica, le biotecnologie e il turismo.

Peraltro, anche dal punto di vista politico, i nostri due Paesi non sono mai stati così vicini, vista la reciproca simpatia che nutrono l’uno per l’altro Orban ed il nostro Ministro dell’Interno e Vicepremier Matteo Salvini, e la condivisone di intenti su diverse tematiche, a partire della questione dei migranti, tema piuttosto scottante nel nostro Paese in questo momento, fino alla posizione antieuropeista e la flat tax.

Un momento propizio per il Made in Italy in Ungheria, dunque, dove tra l’altro i nostri prodotti sono da sempre apprezzati, ma che, approfittando della congiuntura favorevole (almeno dal punto di vista economico), potrebbero trovare nuovi ed interessanti collocazioni.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Miriam Castelli, redazione@exportiamo.it

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