Lo stato africano vive una situazione di forte instabilità da quando, nel 2011, un’azione della Nato portò all’uccisione di Muammar Gheddafi, leader di una dittatura militare durata 42 lunghi anni. E, in uno scenario preoccupante, la diplomazia internazionale si limita a fornire consigli mentre fra Roma e Parigi lo scontro diventa sempre più aspro.
Otto anni dopo la morte di Gheddafi la Libia è ancora un campo minato. E, nelle ultime settimane, la situazione sta ulteriormente peggiorando. A fronteggiarsi sono due fazioni che, ormai dal 2014, cercano di conquistare il controllo del Paese: una sostenuta dalla comunità internazionale e guidata dal premier Serraj e l’altra sostenuta da alcuni Paesi fra cui Russia, Arabia Saudita ed Egitto e, di fatto, guidata dall’esercito del generale Haftar.
In Libia quindi ci sono due governi: il Governo di accordo nazionale con sede a Tripoli, che governa la regione occidentale (Tripolitania) ed il governo di Tobruk, che gestisce la regione orientale (Cirenaica). Dunque, intraprendere un percorso di normalizzazione democratica che porti alla legittimazione di un unico centro di potere sarebbe di fondamentale importanza per il Paese africano ma, i fatti degli ultimi giorni, non lasciano presagire un acquietarsi della situazione da qui a breve. Tutt’altro.
Lo scorso 4 aprile Haftar ha infatti lanciato un’offensiva con l’obiettivo di conquistare la capitale e la risposta di Tripoli non si è fatta attendere. Oggi la situazione che si presenta è incandescente anche se l’obiettivo di Haftar, ovvero giungere in una posizione di forza alla Conferenza Nazionale di Ghadames (14-16 aprile), che si sta tenendo in questi giorni, sembra essere sfumato. In questi giorni infatti i principali protagonisti della crisi stanno provando a trovare una via d’uscita tentando di programmare nuove elezioni.
C’è da dire che in questo scenario così complesso la comunità internazionale sta facendo davvero poco per risolvere la situazione limitandosi a ribadire che si deve trovare una soluzione politica e non militare al conflitto in atto. Facile a dirsi ma molto più difficile a farsi, visto e considerato che gli interessi in gioco sono elevatissimi e le potenze occidentali non sembrano disposte a lasciarsi coinvolgere militarmente. Una prova lampante di questo “disimpegno” è la recente decisione degli Usa di ritirare i marines a difesa della loro ambasciata a Tripoli, ormai praticamente chiusa. Il segretario di Stato Mike Pompeo, nei giorni scorsi, si è infatti premurato di dichiarare che “non ci sarà alcun intervento militare da parte degli Stati Uniti”.
Va sottolineato che tutto ruota attorno alle ingenti risorse Oil&gas libiche e, anche su questo, c’è una precisazione da fare: se, da un lato Haftar, controllando quasi tutto il Paese controlla anche la maggior parte degli stabilimenti petroliferi, dall’altro le rendite petrolifere rimangono saldamente nelle mani del governo di Tripoli dal momento che la comunità internazionale pretende che le esportazioni avvengano solo attraverso la Noc, la compagnia petrolifera nazionale, che ha sede nella capitale del Paese.
Haftar però non ci sta ed ha provato prima a chiedere che almeno il 40% delle rendite petrolifere fossero “girate” al governo di Tobruk e successivamente – visto il mancato accoglimento della richiesta – ha tentato (senza successo) di creare una nuova compagnia petrolifera per vendere il greggio in proprio.
Tuttavia anche se finora Haftar non ha ancora mai interrotto l’estrazione del petrolio non si hanno garanzie su cosa possa accadere nel prossimo futuro. Rimane però fermo un dato paradossale: mentre il “generalissimo” Haftar possiede un esercito ma soffre la scarsità di risorse economiche, Serraj non possiede una vera e propria milizia ma ha ampia liquidità per pagare stipendi e servizi.
Si stima, infatti, che nella Banca Centrale di Tripoli siano custodite riserve per 113 miliardi di dollari e 116 tonnellate d’oro: fondi ampiamente sufficienti ad assicurare, per i prossimi anni, stipendi e servizi vitali. A queste cifre si potrebbero aggiungere le riserve della Lia, il fondo libico creato da Gheddafi nel 2006 ma attualmente sottoposto a “congelamento” dalla comunità internazionale, che avrebbe una dotazione pari a 66 miliardi di dollari.
Infine si evidenzia quanto sia profonda la frammentazione del Paese a tal punto che, in Libia, oltre a due governi e due milizie esistono anche due Banche Centrali: quella di Tripoli, riconosciuta dall’Onu, ed una seconda che fa invece riferimento al parlamento di Tobruk.
Rapporti con l’Italia (e con il mondo)
Come anticipato, in un contesto così frammentato, ci sarebbe solo la comunità internazionale a frapporsi al disegno di Haftar, intenzionato a diventare il dominus incontrastato della Libia. Ma, ovviamente non possono bastare generici inviti alla ripresa del dialogo per trovare una soluzione politica e non militare al rebus libico. Che la situazione sia pesante si evince anche dalle parole pronunciate dal Segretario Generale Antonio Guterres ad inizio aprile, in seguito all’incontro con Haftar ed Aguila Saleh (presidente del Parlamento di Tobruk): “Lascio la Libia con cuore pesante e profonda preoccupazione”.
D’altro canto in Libia si sta giocando una sfida tutta europea fra Italia e Francia. Parigi infatti, ha da tempo assunto una posizione ambigua sulla questione perché, pur sostenendo a parole il governo Serraj, continua a fornire assistenza logistica e di intelligence ad Haftar. Ciò ha portato il governo di Tripoli a chiedere formalmente all’ambasciatrice francese in Libia, Béatrice du Haccuellen, di riportare la propria “forte protesta” al presidente francese, Emmanuel Macron.
Macron infatti sembra avere tutta l’intenzione di riaffermare una pesante influenza sulla Libia, facendo gli interessi della propria compagnia di bandiera – la Total – interessata a mettere le mani sul petrolio locale, a scapito dell’italiana Eni. Dunque, qualora Haftar dovesse spuntarla, gli interessi economici italiani sarebbero messi a rischio poiché – sebbene Eni abbia firmato con Tripoli accordi di lunga durata (fino al 2042 per le produzioni a olio e al 2047 per quelle a gas) – con un nuovo governo le cose potrebbero rapidamente cambiare ed anche i circa 900 milioni di euro di crediti vantati da 130 aziende italiane potrebbero essere più difficili da recuperare.
Oggi comunque l’interscambio tra Italia e Libia vale circa 4 miliardi di euro, di cui un’elevata percentuale è relativa alle importazioni di gas e di petrolio. Il conflitto in atto ha avuto però già una conseguenza ovvero la decisione dell’Eni di evacuare il suo personale in Libia dagli impianti di El Feel e Mellitah.
Anche il premier Conte ha recentemente espresso la propria preoccupazione affermando che “urge lavorare per un cessate il fuoco, preservando l’integrità di Tripoli e la distensione nel resto del territorio“. Alla diplomazia del primo ministro si è però aggiunta la posizione di Salvini che ha così commentato alcune indiscrezioni secondo la quali Macron avrebbe bloccato l’approvazione di un documento Ue che condannasse fermamente l’azione militare di Haftar: “Se ci fossero interessi economici dietro al caos in Libia, se la Francia avesse bloccato un’iniziativa europea per portare la Pace, se fosse vero, non starò a guardare. Anche perché le conseguenze le pagherebbero gli italiani. Se qualcuno per business gioca a fare la guerra, con me ha trovato il ministro sbagliato”.
Insomma la situazione sull’asse Roma-Parigi rimane tesa anche se la riflessione che andrebbe fatta esula da una mera “valutazione economica”: se il conflitto fra le “due Libie” non verrà risolto nell’arco di breve tempo potrebbe infatti innescarsi una crisi sociale che, inevitabilmente, ingrosserebbe il flussi di migranti dalla Libia verso il “Vecchio Continente”, creando nuovi spazi per la proliferazione dello Stato Islamico. E, a quel punto, gli svantaggi non riguarderebbero solo Roma e Parigi ma tutta l’Ue.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA