Gli Usa ai tempi del trumpismo: fra crescita ed incertezza

Gli Usa ai tempi del trumpismo: fra crescita ed incertezza

28 Gennaio 2019 Categoria: Focus Paese Paese:  USA

I primi due anni di governo Trump sono trascorsi in un susseguirsi di luci ed ombre che rendono complicato emettere un giudizio univoco sull’operato del tycoon statunitense. Inoltre per il prossimo futuro l’unica certezza sembra essere la consapevolezza, condivisa da quasi tutti gli osservatori internazionali, che non ci saranno certezze.

Sono passati già più di 24 mesi dal 20 gennaio 2017, giorno in cui Donald Trump ha giurato come 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America fra lo scetticismo e l’indignazione di buona parte dell’establishment internazionale, schierato in larga parte a favore della sua sfidante, Hillary Clinton.

In molti prevedevano scenari foschi per l’economia americana e mondiale, convinti che le ricette economiche di Trump avrebbero provocato danni a tutto il sistema economico ma la realtà ha, almeno parzialmente, smentito i più pessimisti.

In questi 24 mesi in effetti la crescita Usa ha stupito e, dopo il +2,2% registrato nel 2017, il Pil di Washington dovrebbe crescere intorno al +3% nel 2018 (i dati ufficiali saranno disponibili solo il prossimo 30 gennaio) mentre per il biennio 2019-2020 il Fmi prevede una frenata della crescita, rispettivamente al +2,5% ed al +1,8%. Dati tutti da verificare e che potrebbero subire sostanziose variazioni in base a ciò che accadrà nei prossimi mesi.

Quel che è impossibile negare è che, ad oggi, l’economia a stelle e strisce dimostra un invidiabile stato di salute certificato, oltre che dal buon andamento del Pil, anche dalla discesa del tasso di disoccupazione, ormai giunto sotto il 4%. Tali risultati positivi sono principalmente il prodotto del “Tax Cut and Jobs Act” approvato alla fine del 2017 ed in grado di portare benefici ad aziende (corporate tax ridotta dal 35 al 21%), ceti medio-alti e, in misura più contenuta, middle-class. Da evidenziare tuttavia come per la fascia di reddito più bassa, compresa fra 0 e 9.525 $ se single e fra 0 e 19.050 $ se sposati, non sia stato introdotto alcun vantaggio fiscale. Inoltre un ulteriore effetto positivo per le piccole-medie aziende è stato portato dalla nuova legge sull’ammortamento (che permette alle Pmi di ammortare immediatamente l’intero costo di un nuovo macchinario senza doverlo diluire su più esercizi fiscali) insieme alla riduzione del periodo di ammortamento delle strutture aziendali, passato da 39 a 25 anni.

Dunque la politica fiscale di Trump ha mostrato la capacità di sostenere investimenti, crescita del Pil (stando alle stime del Tax Policy Center essa avrebbe avuto un impatto positivo sul Pil 2018 di quasi 1 punto percentuale), dinamica occupazionale e crescita dei salari.

D’altro canto tuttavia le dispute commerciali avviate con la Cina hanno prodotto un fenomeno inverso di riduzione della ricchezza che lo scorso anno, secondo le stime dell’Oxford Economics hanno contribuito ad una contrazione del Pil che oscilla fra lo 0,1 e lo 0,2% del Pil. Il dato più preoccupante tuttavia è un altro e riguarda la corposa crescita del debito pubblico Usa (causata soprattutto da riforma fiscale, incremento di spese militari e tassi d’interesse) che ha portato, alla fine del 2018, il deficit a 779 miliardi di dollari e che, alla fine del mandato del tycoon, potrebbe salire fino a 1000 miliardi.

Inoltre non bisogna sottovalutare gli effetti dello shutdown più lungo della storia statunitense, sospeso lo scorso 25 gennaio fino al 15 febbraio, ed in vigore dallo scorso 21 dicembre 2018. Ciò vuol dire, in estrema sintesi, che per oltre 30 giorni le attività amministrative americane sono state bloccate (stiamo parlando di circa ¼ delle attività federali) con 800mila dipendenti senza stipendio. Tale situazione è la diretta conseguenza del mancato ok del Congresso alle legge di bilancio Usa contenente una richiesta di finanziamento di quasi 6 miliardi di dollari per la costruzione del tanto chiacchierato muro al confine con il Messico. Il mancato accordo fra repubblicani e democratici nelle prossime tre settimane potrebbe addirittura provocare una revisione del rating (oggi tripla A) sul debito sovrano statunitense che avrebbe conseguenze molto negative per l’economia di Washington.

Nella parziale ma non definitiva marcia indietro di Trump ha sicuramente pesato il fatto che circa il 50% dei cittadini americani, secondo alcuni sondaggi, attribuisca la colpa di tale situazione direttamente al presidente statunitense che, alla lunga, rischia di pagare uno prezzo molto alto in termini di perdita di consenso.

Va poi ricordato che sembra ormai scontato che, dal prossimo anno, gli Usa perderanno, anche a livello nominale (sulla base della PPP sono già secondi), il primato di economia più grande del mondo proprio a vantaggio di Pechino che, nonostante nel 2018 abbia registrato il livello di crescita del Pil più basso dal 1990 (+6,6%), sembra ormai essere ad un passo dal completare il sorpasso. Secondo l’istituto bancario Standard Chartered, inoltre, entro il 2030 Washington potrebbe cedere il passo anche all’avanzata di New Delhi, diventando così la terza economia più grande al mondo e conservando possibilità minime di riconquistare, negli anni a venire, il terreno perduto.

Pur non trattandosi di un vero e proprio declino (non è detto infatti che le potenze asiatiche raggiungano mai i livelli di Pil pro capite e qualità della vita statunitensi) tali dati danno un’idea di come l’avanzata asiatica sia ormai un dato inevitabile tanto che, fra 10 anni, ben 6 delle prime 10 economie al mondo potrebbero provenire da quel Continente.

Opportunità per l’Italia

L’andamento dell’economia a stelle e strisce viene seguito con particolare interesse dal sistema economico italiano perché gli Stati Uniti rappresentano un mercato d’incredibile rilevanza per le imprese del Belpaese. Oggi infatti essi rappresentano il terzo mercato di destinazione dell’export Made in Italy assorbendo (dati 2017) oltre 40 miliardi di euro di prodotti nostrani, con un saldo commerciale positivo per oltre 25 miliardi. Anche i dati parziali, relativi ai primi 10 mesi del 2018, confermano un trend di crescita interessante (+5%) per le vendite italiane verso Washington e, secondo le previsioni Sace, la progressione nella richiesta di prodotti della Penisola dovrebbe essere tale da portare, da qui al 2021, l’export italiano vicinissimo a quota 50 miliardi di euro. Sempre ammesso che le politiche commerciali di stampo protezionistico di Trump non si abbattano anche su Roma causando un rallentamento di una dinamica molto positiva per tutto il nostro sistema produttivo.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it

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