L’ex colonia tedesca ed inglese continua a crescere a ritmi sostenuti anche grazie a corposi investimenti infrastrutturali che rischiano però di deteriorare i conti pubblici. Vediamo insieme quali sono le principali opportunità per le imprese italiane interessate a fare affari con il Paese dell’Africa Orientale che fino alla fine degli anni ’70 ha coltivato il sogno del “socialismo africano”.
Dall’indipendenza al fallimento del socialismo
Non molti sanno che la storia della Tanzania è strettamente legata al concetto di socialismo. Un “sogno” targato Julius Nyerere, padre fondatore del Paese africano che ne guidò il processo di decolonizzazione (indipendenza ottenuta nel 1964) e che, da presidente, si impegnò con tutte le sue forze per lo sviluppo dell’identità nazionale, da raggiungersi attraverso la collettivizzazione agricola del Paese, secondo il concetto dell’Ujamaa (“famiglia estesa”). Il fine ultimo di Nyerere era quello di portare la Tanzania a diventare autosufficiente, tanto economicamente quanto culturalmente.
Tale visione politica prevedeva che i singoli organizzassero i loro sforzi per il miglioramento della vita comunitaria, agevolando il possesso comune delle risorse primarie (terra e mezzi di produzione), favorendo una distribuzione più egualitaria della ricchezza prodotta e creando un sistema formativo universale e gratuito.
Per ridurre al minimo eventuali divisioni politiche fu poi creato un sistema politico monopartitico, dominato dal Chama Cha Mapinduzi.
Tuttavia una serie di eventi come il crollo dei prezzi dell’export di alcuni beni, la crisi petrolifera degli anni ’70, lo scoppio della guerra con l’Uganda e periodi di forte siccità portarono al fallimento del socialismo in salsa africana. Così, a partire dalla metà degli anni ’80, con il governo di Ali Hassan Mwinyi, la Tanzania cominciò ad adottare quelle politiche neo-liberiste osteggiate da Nyerere che convinsero Fmi e Banca Mondiale a concedere al Paese africano importanti aiuti economici.
Sarebbe tuttavia sbagliato bollare l’esperienza socialista tanzaniana come un totale fallimento, anche perché una serie di dati evidenziano come – dall’indipendenza alla fine degli anni ’70 – il Paese sperimentò, oltre ad una fase di crescita del Pil, un incredibile aumento del tasso di alfabetizzazione (dal 10 al 60%), un vero e proprio boom delle iscrizioni alla scuola primaria passate dal 25 ad oltre il 90% ed incredibili miglioramenti anche in campo sanitario.
All’inizio degli anni ’90, e più precisamente nel 1992, fu introdotto il multipartitismo, che portò nel Paese nuovi equilibri politici, economi e sociali. Le prime elezioni libere, svoltesi nel 1995, portarono alla vittoria Benjamin Mkapa, le cui politiche di liberalizzazione condussero alla cancellazione del debito della Tanzania.
Ma quale è oggi la situazione economica e politica in Tanzania?
Al governo del Paese c’è, dal novembre del 2015, John Pombe Joseph Magufuli, personaggio piuttosto controverso. Nel corso del suo mandato si evidenzia un buon tasso di sviluppo economico (nel triennio 2015-2017 pari a circa il 6,7% annuo) a cui si accompagnano però dati meno confortanti come l’incremento del numero di tanzaniani che vivono in condizione di povertà.
Inoltre si lamenta un’assenza di adeguato supporto al comparto agricolo che, oltre a rappresentare ¼ del Pil, produce più del 70% del cibo consumato in Tanzania, rappresenta l’85% dell’export locale e fornisce lavoro al 75% degli occupati tanzaniani.
Magufuli ha recentemente confermato d’infischiarsene di chi lo critica per l’incremento del debito pubblico del Paese, in crescita ma comunque sotto il 40% del Pil, evento giudicato inevitabile a finanziare alcuni grossi progetti infrastrutturali fra cui una linea ferroviaria che collegherà Dar es Salaam fino al confine con Ruanda e Burundi ed una diga idroelettrica nella gola di Stiegler sul fiume Rufiji (con probabili effetti nefasti a livello ambientale), all’interno del parco di Selou, riconosciuto dall’Unesco come patrimonio mondiale. Secondo il presidente “la Tanzania ha ancora spazio per ulteriori prestiti. Ciò che conta sono i progetti in cui investiamo il denaro preso in prestito”.
Ma probabilmente ciò che preoccupa maggiormente la comunità internazionale è la forte riduzione nella tutela dei diritti individuali (nel Paese è ormai aperta la “caccia agli omosessuali”) e l’incremento della violenza politica ben riassunto nella frase pronunciata dal capo della polizia di Dodoma, capitale del Paese, secondo cui chi si permetterà di protestare per la mancanza di libertà potrebbe finire con “una gamba rotta e rischia di tornare a casa paralizzato”.
Opportunità per il Made in Italy
I rapporti politici fra Roma e Dodoma sono sempre stati buoni, anche perché il Belpaese ha fortemente sostenuto la Tanzania nel processo che ha portato alla cancellazione del debito mentre sono molto meno sviluppati da un punto di vista commerciale. L’interscambio fra i due Paesi si è infatti fermato a 111,6 milioni di euro nel 2017, con un saldo commerciale favorevole all’Italia per circa 29 milioni di euro.
Secondo Sace tuttavia fra il 2018 ed 2021 l’export Made in Italy nel Paese africano dovrebbe conoscere una buona crescita, superiore al 2% annuo.
Al Paese africano vendiamo soprattutto prodotti meccanici e metallurgici mentre i nostri investimenti si concentrano per la maggior parte in campo turistico-alberghiero, in particolare a Zanzibar, una delle località turistiche più rinomate dell’Oceano Indiano.
Tuttavia interessanti opportunità di collaborazione potrebbero aprirsi alle nostre Pmi anche in altri comparti, soprattutto in ragione di numerosi progetti infrastrutturali che riguardano l’espansione della rete stradale, il rinnovamento delle ferrovie, di epoca coloniale, l’elettrificazione delle zone rurali, l’espansione del porto di Dar es Salaam e la creazione di un nuovo porto a Bagamoyo.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it
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