“Se l’arciere mira in alto certamente non raggiungerà il cielo, ma aumenterà la gittata della freccia e colpirà un bersaglio posto più lontano”, predicava ne “Il Principe” il buon vecchio Niccolò Machiavelli, una lezione che può tornare sempre utile e necessaria anche nell’analisi e nella comprensione del presente.

Parlando delle due più grandi economie al mondo - Europa e Stati Uniti - che realizzano sulle sponde dell’Atlantico la relazione economica bilaterale di più vasta portata a livello globale, viene da chiedersi cosa possa esserci mirando ancora più “in alto”.

Il “bersaglio più lontano” é il Transatlantic Trade and Investment Partnership - TTIP.

IL TTIP, il mega-regional agreement in fase di negoziazione tra la Commissione Europea e il Governo degli Stati Uniti e i suoi round negoziali sono sempre più di dominio pubblico e naturalmente non mancano le mobilitazioni che puntano sui rischi piuttosto che sui benefici, sulle minacce come sulle opportunità.

Innanzitutto é bene sgomberare la questione dagli equivoci: il TTIP non é un semplice Accordo di Libero Scambio o - come qualcuno ha voluto suggestionare - una “NATO dell’economia”.

Probabilmente non si sbaglia nel definirlo il “trattato più importante della storia”, non solo per la mole degli interessi in gioco, ma anche per le conseguenze che l’eventuale stipula avrebbe sul futuro delle relazioni economiche internazionali, anche al di fuori della dimensione transatlantica.

Il TTIP attiene ai destini generali e personali di ogni cittadino non solo europeo o americano ma anche cinese, vietnamita, brasiliano o russo.

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E’ la volta buona?

L’idea di lavorare per l’affermazione di un’area di libero scambio e partenariato globale transatlantica ha affascinato classi dirigenti, élites commerciali e industriali nel “Vecchio Continente” e nel “Nuovo Mondo” fin dalla prima metà degli anni Novanta, appena la storia l’ha reso possibile e pensabile con la fine della Guerra Fredda e la nascita di un’Europa più ambiziosa sul piano politico con i “Trattati di Maastricht” del 1992.

La prima declinazione possibile di questo progetto ambizioso fu il Transatlantic Free Trade Agreement - TAFTA che rimase però sostanzialmente solo sulla carta per diverse ragioni.

Innanzitutto in realtà il regime tariffario tra Europa e Stati Uniti era ed é relativamente basso con qualche eccezione relativa ad alcune categorie di prodotti, questa tra l’altro é una critica “ontologica” all’accordo, usata anche oggi dagli oppositori ai negoziatori.

Negli anni Novanta le due sponde dell’Atlantico avevano altre impellenze ed erano più interessati quindi a ridurre i dazi esistenti nel commercio con altri paesi (gli Stati Uniti, per esempio, in quegli anni negoziarono il grande accordo di libero scambio con Canada e Messico, il North Atlantic Free Trade Agreement - NAFTA). Infine furono le fondamentali differenti visioni su tariffe dei prodotti agricoli, Standard Sanitari e Fitosanitari - SPS e impiego di Organismi Geneticamente Modificati - OGM a bloccare l’evoluzione verso un vero e proprio negoziato.

Non bisogna dimenticare che fino all’inizio del terzo millennio c’era più fiducia nell’avanzamento dei negoziati sulla liberalizzazione del commercio mondiale in sede multilaterale e in quello che sarebbe riuscito a fare il neonato World Trade OrganizationWTO.

Il TAFTA era percepito, infatti, come una pericolosa distrazione rispetto a un progetto di ben più ampia portata che avrebbe portato nel 2001 all’avvio del Doha Round sulla liberalizzazione del commercio mondiale, mai concluso a riprova del fatto che le condizioni nel tempo sono cambiate, e come sono cambiate.

Un secondo tentativo fallito per riavviare il dialogo fu l’istituzione - da parte del Vertice Stati Uniti-Ue nel 2007 - del Transatlantic Economic Council - TEC, sopravvissuto alla sua mission originaria ben presto abbandonata per focalizzare le attività su questioni concernenti la produzione di standard industriali compatibili da parte delle autorità americane ed europee.

In realtà il risultato di quella che oggi a posteriori é definita la “prima fase della globalizzazione” é stato - secondo alcuni e contrariamente a quello che si pensava inizialmente - favorevole ai paesi emergenti sempre più protagonisti e integrati nella “catena del valore globale” e - come abbiamo avuto già modo di approfondire su Exportiamo - sempre più influenti sul piano politico e finanziario, basta pensare alla recente creazione della New Developmente Bank - NDB voluta dai BRICS.

Il Doha Round ha disatteso le aspettative sull’avanzamento dei negoziati multilaterali per la liberalizzazione del commercio mondiale e proprio in questa sede é emerso lo “scontro” tra i paesi emergenti e quelli avanzati.

Qualche progresso nel negoziato é emerso solo recentemente nel dicembre 2013 a Bali in Indonesia, dopo anni di stallo negoziale, durante la IX^ Riunione Ministeriale WTO.

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“Mira in alto” per cogliere l’opportunità della crisi

Tra i vari fattori intervenuti a cambiare le carte in tavola sul negoziato transatlantico va annoverata la crisi finanziaria degli ultimi anni.

I paesi avanzati hanno dovuto fare i conti con una crisi di vasta portata che, partendo dal contagio del sistema finanziario ha avuto e continua ad avere pesanti ripercussioni su economia reale e occupazione, come siamo ben coscienti a queste latitudini al netto di sogni, speranze e promesse.

Nello stesso periodo però, la Cina, ad esempio, ha quasi raddoppiato la sua quota sulla Produzione Mondiale passando dal 6,7% del 2007 alle stime per il 2014 che prevedono un +12,7%, così come l’UNCTAD nell’ultimo World Investment Report - WIR vede Paesi Emergenti ed Economie in Transizione recitare un ruolo sempre più da protagonisti e rappresentano circa la metà della destinazione degli IDE in entrata e, nel 2013, generando il 39% degli IDE in uscita e soppiantando le economie sviluppate quali principali destinatari di IDE.

I contrasti negoziali con i Paesi Emergenti e le difficoltà ad arrivare a soluzioni condivise in sede multilaterale hanno fatto proliferare negli ultimi anni la conclusione di Accordi di Libero Scambio su base bilaterale o regionale. Un accordo Usa-Ue é più accettabile rispetto al recente passato perché Washington e Bruxelles possono rivendicare le grandi energie spese nel negoziato multilaterale e l’aver scelto la via bilaterale, solo dopo averne constatato il fallimento.

Così il “solito” Vertice Stati Uniti-Ue a fine 2011 - con lo scopo di elaborare proposte su possibili iniziative congiunte di stimolo all’economia - ha creato un “High-Level Working Group on Jobs and Growth” che nelle sue conclusioni del febbraio 2013 ha raccomandato l’avvio del negoziato sul partenariato transatlantico dettagliandone i contenuti e solo 2 giorni dopo, Obama e gli ormai quasi ex presidenti del Consiglio e della Commissione europea, Herman Van Rompuy e José Manuel Barroso, hanno diramato un comunicato congiunto per comunicare l’avvio dell’iniziativa.

Nel giugno 2013 é il Consiglio Europeo a trasmettere invece il mandato negoziale alla Commissione Europea per il successivo avvio dei round negoziali - nel mese successivo - con la prima sessione di Washington DC.

In base ad alcune stime il TTIP a regime porterebbe a ricadute positive su occupazione e crescita.

Bruxelles ritiene che fino al 2027 il PIL dell’UE potrebbe beneficiare di un aumento annuo medio dello 0,4%, e quello americano dello 0,5% mentre per le imprese europee ci si attende un incremento delle vendite negli Stati Uniti di beni e servizi per 187 miliardi di euro. Altre stime parlano di elevati aumenti del PIL pro capite (quasi il 5% in più per l’Italia). Inoltre il TTIP é la sede privilegiata per recuperare l’iniziativa sul piano della definizione degli standard e delle regole del commercio internazionale. Altre stime segnalano un possibile incremento del 6% dell’export Usa verso l’UE e del 2% in direzione opposta.

Il negoziato é concentrato in modo particolare sulla questione delle Barriere Non Tariffarie al commercio di beni e servizi più che su quelle tariffarie, ma anche sull’accesso alle commesse pubbliche in molti settori, sulla definizione di nuovi e più ambiziosi standard in alcuni settori industriali, e sugli investimenti, il vero fulcro del sistema d’interdipendenza tra le due sponde dell’Atlantico.

Vengono inoltre fissati dei limiti, e qui sta il terreno di scontro con chi si oppone al TTIP, per quel che riguarda i servizi pubblici, la cultura, gli OGM e più in generale le alterazioni di sovranità, più o meno le cause che nel merito hanno fatto fallire il negoziato durante i precedenti tentativi.

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Un’altra sfida per il Semestre Italiano

Secondo lo studio Prometeia “Stima degli impatti sull’economia italiana derivanti dall’accordo di libero scambio USA-UE” del giugno 2013 vista l’elevata incidenza delle voci export italiane nei settori dove pesano maggiormente i dazi e le barriere non doganali a stelle e strisce, la possibile apertura porterebbe maggiori benefici al “Belpaese” rispetto a quelli che porterebbe per altri paesi e comporterebbe una naturale barriera daziaria “differenziale” rilevante nei confronti dei paesi che esportano negli stessi settori.

Considerando l’incidenza relativa sull’export verso gli USA di settori cult del “Made in Italy” qualimeccanica, moda, alimentari e bevande caratterizzati da produzioni sensibili al prezzo ed esposte alla concorrenza asiatica, il “dazio differenziale” aiuterebbe la produzione italiana più di quanto favorirebbe quella di altri paesi.

Lo studio Prometeia é stato commissionato dal Vice Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, la nostra parte trattante a livello istituzionale, in vista del già citato round negoziale di Washington DC del luglio 2013 teatro del confronto su temi fondamentali quali l’accesso al mercato dei prodotti agricoli ed industriali, SPS, servizi e proprietà intellettuale, ma anche sviluppo sostenibile, PMI, concorrenza e agevolazioni.

Calenda fin dal principio si é fatto promotore della bontà del progetto per il Sistema Italia, lamentando da sempre la necessità di imporre al negoziato la massima trasparenza e promuovendo il dibattito sull’argomento nelle sede opportune e in apparizioni pubbliche.

E’ anche un suo merito quindi, in qualità di Presidente di turno del Consiglio Affari Esteri - Commercio dell’UE, se proprio in queste ultime settimane il Mandato Negoziale del Consiglio sia stato desecretato, iniziando a colmare il gap di trasparenza che rivendicano gli oppositori all’accordo.

Il mandato sostanzialmente delimita il campo d’azione dei negoziatori in relazione a tre temi chiave da affrontare ovvero accesso al mercato; questioni normative e ostacoli non tariffari; norme e regole commercio internazionale; che saranno negoziate in parallelo come parti di un unico sforzo di comprensione reciproca per garantire un risultato equilibrato tra la soppressione dei dazi, l’eliminazione di ostacoli normativi e il miglioramento normativo tenendo conto come recita il mandato negoziale al punto uno: deve confermare che il partenariato transatlantico sugli scambi e sugli investimenti si basa su valori comuni, comprese la tutela e la promozione dei diritti umani e la sicurezza internazionale”.

Lo scorso 14 ottobre Calenda e il Premier Renzi hanno preso parte, a Roma, all’evento pubblico “A dialogue on the Transatlantic Trade and Investment Partnership” dove é stata ribadita da entrambi l’importanza strategica del TTIP per l’Italia nella visione del governo e di come durante il Semestre Italiano di Presidenza Europea si voglia imprimere una svolta al negoziato prima che le prossime scadenze elettorali, soprattutto oltreoceano, possano condizionare il negoziato.

Su un piano più generale é stato ribadito anche nel comunicato congiunto sulla Riunione Informale sul Commercio di Calenda e del Capo Negoziatore UE Karel De Gucht come la conclusione del negoziato rappresenterebbe un turning point nelle relazioni internazionali e anche uno strumento utile non solo per il business e lo sviluppo del partenariato ma anche per ribadire l’importanza e la centralità dei valori delle economie liberaldemocratiche.

Nella realtà attuale questi valori - in un momento in cui la crisi mina l’effettiva capacità di assicurare crescita, sviluppo e benessere alla popolazione - subiscono minacce e pressioni da più parti oltre ad essere additati come espressione di un modello di sviluppo che non può prescindere dalla diseguaglianza, amplificata tra l’altro dal “dogma” del libero scambio.

Nella visione di Calenda ci troviamo oggi nella “seconda fase della globalizzazione”:

“In parole semplici stiamo iniziando a incassare il dividendo del nostro investimento sulla globalizzazione”

Se in precedenza l’integrazione dei paesi emergenti nel commercio internazionale e nella “catena globale del valore” li ha portati a essere economie di produzione, oggi il nostro dividendo sta nel poter e saper intercettare la domanda proveniente da questi nuovi mercati e favorire gli investimenti reciproci, così come l’innalzamento del livello di vita e l’aumento dei costi di produzione e del lavoro nei mercati emergenti stanno generando il fenomeno del reshoring, il ritorno della produzione industriale nei paesi avanzati che potrebbe dare qualche risposta alla disoccupazione galoppante in un momento in cui, ad esempio in Italia, si sta anche ridisegnando il quadro delle relazioni industriali su nuove basi.

 “Il lieto fine é però tutt’altro che scontato” ha fatto notare il Vice Ministro e la condicio sine qua non per il “vissero tutti felici e contenti” é proprio l’apertura dei BRICS che invece dimostrano una certa ritrosia anche a causa dello stallo negoziale del Doha Round e con esso anche la fiducia ormai lontano ricordo sull’efficacia del sistema multilaterale e così:

Come conseguenza assistiamo alla nascita di un più complesso sistema di governance della globalizzazione, costruito su tre livelli. I grandi accordi come il TTIP, gli accordi plurisettoriali in sede WTO e infine il round multilaterale per tenere agganciati tutti i paesi che non sono pronti ad aperture più profonde.

Bisogna candidamente affermare che si può essere d’accordo o meno con la visione portata avanti dal Vice Ministro Calenda ma non gli si può non riconoscere come si sia sempre speso in prima persona su queste tematiche con competenza e cognizione di causa e stimolando il Sistema Italia a un collocamento ottimale nella “scala del valore globale” per raccogliere il proprio dividendo e guardando alle opportunità e ai benefici derivanti da un mondo globale.

Come abbiamo visto quindi, nelle intenzioni, il TTIP dovrebbe essere utile e importantissimo per l’Europa e per l’Italia sul piano economico, sociale e politico.

1)Economia: situazione win-win su Commercio e PIL con l’abbattimento delle barrieretariffarie e non tariffarie che secondo le stime incidono sul commercio transfrontaliero sui costi di beni (+41%) e servizi (31%), rendendo tra l’altro il clima economico anche più favorevole alle Piccole e Medie Imprese che soffrono maggiormente questo tipo di limitazioni sia sul piano economico che relazionale.

2)Società: guidare la “seconda fase della globalizzazione” e raccogliere il dividendo del nostro investimento configurando il TTIP anche come un nuovo corso della globalizzazione che ne faccia percepire i benefici anche considerando che tra gli output della “prima fase della globalizzazione” va “rendicontato” anche un miliardo di persone che sono uscite dalla povertà assoluta.

3)Politica: il TTIP sarà il primo passo verso la definizione di standard globali che terranno sotto pressione i paesi emergenti e la forza del partenariato transatlantico potrebbe dispiegarsi anche a livello strategico su diversi dossier.

I punti critici del negoziato, oggi come ieri, sono chiari ed evidenti già in partenza.

In termini generali la legislazione in tema di proprietà intellettuale, gli standard sulla approvazione di prodotti che possono avere effetto sulla salute, e la protezione dei dati personali si scontrerà con le diverse istanze e le diverse sensibilità presenti sulle due sponde dell’oceano. Ad esempio divergenze con gli Stati Uniti sorgono sul concetto di “denominazione d’origine” pressoché sconosciuto, mentre in Europa esso viene utilizzato come baluardo delle tradizioni locali e garanzia di non appropriazione da parte di paesi terzi. Così mentre la Commissione europea vorrebbe stabilire un “vero” registro delle denominazioni di origine, gli Usa propendono per un sistema di registrazione puramente volontario e senza effetti cogenti. Questo problema ci tocca da vicino perché noi siamo la patria dei DOC, DOP, DOCG, ecc.

In termini settoriali i principali problemi sono riscontrabili tra prodotti farmaceutici, chimici e cosmetici, settore alimentare e più in generale tutti i settori in cui la regolamentazione mira a garantire la sicurezza dei prodotti. Anche in questo caso, mentre l’UE si affida al “Principio di Precauzione” e al controllo amministrativo e sostanziale preventivo nel determinare l’accesso o meno al mercato di prodotti innovativi, come gli OGM, mentre gli Stati Uniti preferiscono, pragmaticamente, un approccio basato sui costi e i benefici e sul controllo successivo.

I punti equivoci non sono pochi e un ruolo fondamentale lo avrà la partecipazione, prevista e regolamentata a Bruxelles come a Washington, della società civile e degli interessi particolari di grandi aziende e gruppi di pressione.

In Europa come negli Stati Uniti nel frattempo sorgono movimenti di protesta e opposizione alla firma del TTIP additando i rischi più o meno delineati per salute della persone e rispetto ambientale, perché la globalizzazione oltre ad incrementare la circolazione di merci, capitali e persone, ha reso interconnesse anche le idee e le sensibilità, così vi é sempre un’attenzione maggiore da parte dei cittadini, sempre pronti a far rete per difendere i propri diritti, il proprio territorio o la propria salute.

Il contenuto dell’eventuale accordo potrebbe essere tra l’altro largamente ridimensionato durante le negoziazioni come sta già accadendo perché la sfida di armonizzare gli standard tecnici e gli approcci alla regolamentazione in settori strategici come la chimica, la farmaceutica passerà almeno per i tempi supplementari.

L’auspicio é che l’arciere sia davvero prudente ma anche ambizioso e lungimirante e che la corda sia ben tesa per poter mandare la freccia lontano, verso lidi migliori di quelle attuali.

 

Fonte: a cura di Exportiamo, di Antonio Passarelli, redazione@exportiamo.it 

 

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