Gli ultimi anni hanno visto emergere le monarchie del Golfo all’interno dello scenario regionale. Spinti dall’evidente ascesa iraniana e dal progressivo disimpegno statunitense, oltre che dalla debolezza dei loro tradizionali partner arabi (Egitto e Iraq), i regimi del Golfo hanno dovuto abbandonare la tradizionale propensione al “leading from behind” per riempire un vuoto di potere.

Riyadh é stata la capitale che meglio ha rappresentato tali tendenze, intervenendo con una serie di misure economiche di enormi proporzioni.

Con la caduta del presidente Morsi in Egitto nel luglio del 2013 gli al-Saud hanno impresso una spinta maggiore a tale strategia. In ambito interno la casa regnante ha rinnovato la propria alleanza con il clero wahabita anche a discapito di una dialettica interna alla famiglia al-Saud tutt’altro che appiattita su posizioni reazionarie.

Come il sovrano saudita, anche l’emiro di Abu Dhabi e presidente degli EAU (Zayed) ha fatto ampio ricorso ai benefici economici e repressioni per mettere fuori gioco la locale sezione dei Fratelli Musulmani.

Il Bahrain non é riuscito ad evitare gli effetti della primavera musulmana anche a causa di una situazione interna profondamente segnata da divisioni tra l’elite sunnita dominante e la maggioranza sciita della popolazione. L’escalation della crisi e il rischio di spillover regionale spinsero Riyadh a intervenire direttamente attraverso l’invio di un contingente armato che giocò un ruolo fondamentale per reprimere il dissenso.

Alla triade composta da Arabia Saudita, EAU e Bahrain hanno fatto da contraltare le strategie di Kuwait, Oman e Qatar che si sono caratterizzate per una minore adesione ai canoni sauditi e per un approccio variegato che soprattutto nel caso del Qatar ha assunto direttrici completamente opposte a quelle di Riyadh.

Dei tre paesi l’Oman é quello che meno si é esposto a livello regionale e interno, mantenendo un profilo autonomo ma non in diretta contrapposizione con le direttrici saudite. L’Oman insieme al Bahrain é stato destinatario di un pacchetto di aiuti pari a 20 miliardi di dollari approvato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo nel 2011 per sostenere i due stati membri dell’organizzazione più in difficoltà.

Una linea d’azione marcatamente differente rispetto agli altri paesi é stata quella qatarina. Sotto la guida dell’emiro Hamad bin Khalifa al Thani, al potere dal 1995, il Qatar ha cercato progressivamente di imporsi come alternativa alla casa saudita, soprattutto dopo lo scoppio delle primavere arabe, abbracciando sin da subito i movimenti rivoluzionari e scommettendo sul loro successo. A distanza di tre anni, l’investimento fatto in termini sia economici sia geopolitici, non sembra aver pagato. A eccezione del caso tunisino le varie primavere hanno avuto percorsi tortuosi e in alcuni casi (Egitto) ostili a Doha oppure hanno prodotto conflitti intestini tutt’altro che prossimi alla conclusione, come evidenziato dal caso libico e soprattutto dalla guerra Siriana. Avendo sostenuto attivamente il movimento Fratelli Musulmani, l’emirato non ha attuato le stesse misure restrittive adottate da Arabia Saudita, EAU e Bahrain nei confronti del movimento, denunciando anzi la decisione presa dai tre partner del Consiglio di cooperazione del Golfo. In ambito interno il paese si é distinto anche per la tranquilla transizione che ha portato lo scorso anno l’emiro a cedere il potere al giovane figlio Tamim. Dal punto di vista politico il nuovo emiro pare propenso a continuare le aperture socio politiche avviate dal padre, anche se, le resistenze poste dall’establishment tribale all’istituzione del consiglio consultivo parzialmente  eletto, rischiano di limitare significativamente la libertà d’azione.

Il GCC si é costituito nel 1981 con l’obiettivo di creare un’unione doganale come prima tappa verso la realizzazione di un mercato comune e l’adozione di una moneta unica. L’accordo stabiliva innanzitutto l’abolizione delle tariffe sui prodotti degli stati membri, quindi fissava un livello minimo e massimo (rispettivamente 4% e 20%) per le tariffe da applicare sulle importazioni provenienti da paesi terzi. Tuttavia lo smaltimento del tariffario all’interno della regione non ha favorito un incremento degli scambi commerciali tra i paesi membri a causa della scarsa complementarietà delle economie dei GCC, caratterizzate da una struttura produttiva assai simile (fondata sugli idrocarburi). La cooperazione economica fra le sei monarchie del Golfo punta ad assumere posizioni comuni nelle trattative economiche internazionali, aumentando in tal modo il peso negoziale degli stati membri. L’unione doganale, entrata in vigore nel gennaio 2003, ha rappresentato un passaggio di grande importanza dopo quasi due decenni di continui rinvii. All’unione doganale é seguita la creazione del mercato comune nel 2008. Invece l’unione monetaria prevista per il 2010 non é stata realizzata sebbene la maggior parte dei criteri di convergenza richiesti sono stati soddisfatti dagli stati membri. Tuttavia nel 2007 l’annuncio del Kuwait di abbandonare l’ancoraggio della propria moneta al dollaro per sostituirlo a un paniere di valute e la successiva decisione dell’Oman e dell’EAU di non voler entrare nell’unione monetaria hanno messo una grossa ipoteca sulla ripresa del processo di integrazione monetaria.

La fase di cambiamento e di incertezza politica seguita alle primavere arabe ha avuto delle ricadute anche sulle dinamiche in seno al GCC, rafforzando da un lato i legami tra Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrain e mettendo il luce dall’altro le divergenze e rivalità interne evidenziate in particolar modo dal progressivo sganciamento del Qatar dall’asse a guida saudita. L’attivismo politico di Doha sostenuto da ingenti disponibilità economiche, da una solida alleanza con gli Stati Uniti, da un’alleanza strategica con i Fratelli Musulmani (specie in Egitto e Tunisia), oltre che dai vantaggi derivanti dal controllo del network Al-Jazeera, ha provocato crescenti attriti con Riyadh e EAU. La caduta dell’amministrazione Morsi, appoggiata economicamente e politicamente da Qatar, e la successiva affermazione della presidenza egiziana di al-Sisi, sostenuto invece dai Sauditi – ma anche dagli Emirati e dal Kuwait – sono stati gli elementi culminanti di questo scontro. Risulta particolare il ruolo giocato dal Kuwait che attraverso l’azione dell’emiro Al-Sabah sta cercando di mediare tra le parti. Nel marzo scorso Arabia Saudita, Eau e Bahrein hanno infatti richiamato i loro ambasciatori a Doha. Riyadh e gli EAU hanno perfino minacciato una chiusura delle frontiere e dei rispettivi spazi aerei. Le implicazioni economiche di un’eventuale chiusura sarebbero disastrose considerando anche il recente investimento in infrastrutture e sviluppo urbano di 140 miliardi di dollari stanziati da Doha in vista dei mondiali di calcio 2022. Secondo alcuni analisti la spaccatura in seno al Gcc potrebbe prospettare una futura e distinta alleanza in chiave di sicurezza dei membri del Consiglio, dalla quale resterebbero esclusi Qatar, Oman e Kuwait. 

In ambito economico gli Stati Uniti sono uno dei partner commerciali più significativi dei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il mercato americano é una delle principali destinazioni degli idrocarburi, di cui il Golfo persico resta primo produttore mondiale con circa il 12% delle commesse totali. Gli USA sono inoltre legati al Gcc dalla Middle East Free Trade Initiative lanciata da Washington a maggio 2003. La partnership comprende un accordo di libero scambio con il Bahrein (siglato nel 2004) e con l’Oman (nel 2006). I negoziati iniziati con gli EAU nel 2004 non sono stati invece portati avanti. Nel periodo tra il 2003 e il 2008 gli USA sono stati il primo destinatario degli IDE provenienti dal paesi del Gcc: 450 miliardi di dollari cioé il 49% degli investimenti in uscita. 

La partnership commerciale tra i Paesi del Gcc e l’Asia é cresciuta stabilmente negli ultimi  anni, arrivando a sostituire gli Stati Uniti e Unione Europea nella scala di importanza del commercio estero. Giappone, Cina, Corea del Sud e India costituiscono assieme il 72% dell’interscambio complessivo del Gcc con l’Asia che in totale ammonta a più del 60% dell’interscambio totale del Golfo, passato da 480 miliardi di dollari del 2008 a 814 miliardi nel 2012. Questi stessi Paesi sono assieme a Stati Uniti e Germania i principali importatori netti di greggio di GPL dal Golfo. 

Tali legami con i giganti asiatici non solo stanno crescendo ma si direzionano gradualmente anche verso ambiti diversi da quelli energetici e commerciali. 

I sei paesi del GCC hanno sul piano internazionale una importanza strategica superiore al loro peso economico che é pari a meno del 2% del PIL mondiale. I pozzi situati in questi paesi forniscono circa il 20% del petrolio e il 10% del gas estratti a livello mondiale. Inoltre grazie alla rilevante capacità di estrazione non utilizzata, soprattutto in Arabia Saudita, gli stessi svolgono un essenziale ruolo di regolazione del mercato degli idrocarburi in periodi di tensione. Negli anni i paesi del GCC hanno accantonato le entrate petrolifere in fondi sovrani, che ora hanno una capitalizzazione (2.246 miliardi di dollari ad aprile 2014) pari ad un terzo del totale mondiale di questa categoria e detengono significative quote di società e prestiti obbligazionari esteri, soprattutto dei paesi avanzati. Infine per la loro posizione geografica costituiscono un cruciale punto di transito del commercio internazionale e ospitano importanti hub internazionali di servizi finanziari, commerciali e di trasporto.

Nel decennio 2004-2013 i Paesi del GCC hanno registrato un tasso di crescita medio del PIL reale del 6,7% leggermente superiore al dato medio di crescita del totale delle economie dei paesi emergenti (6,4%) e pari a più di quattro volte l’espansione media del PIL delle economie avanzate (1,61%).

 

Fonte: a cura di Exportiamo, redazione@exportiamo.it

 

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