Il “Bello e Ben Fatto” Made in Italy, e cioè l’insieme delle eccellenze che tutto il mondo brama e ci invidia vale oggi 135 miliardi di euro, ma si può fare ancora di più: il potenziale stimato è infatti di altri 82 miliardi. Solo a patto, però, di avere una strategia che, inevitabilmente, passa dal digitale.
La crisi da Covid-19 ha assestato un duro colpo a tutti i settori economici, e se alcuni comparti (si pensi, ad esempio, a tutte le attività legate al turismo) ne hanno risentito maggiormente, anche i beni finali di consumo belli e ben fatti (BBF) hanno subito pesanti ripercussioni.
Ciononostante il BBF continua ad essere leva di competitività per il Made in Italy: lo dice il rapporto “Esportare la Dolce Vita 2021” redatto dal Centro Studi di Confindustria, con il contributo di SACE, Netcomm e Fondazione Manlio Masi - Osservatorio nazionale per l’Area Affari Internazionali e gli scambi, e presentato ieri in streaming. Secondo i dati del Rapporto, infatti, il BBF tricolore vale 135 miliardi di euro, rappresenta una parte consistente delle esportazioni complessive dell’Italia ed è trasversale a tutti i principali comparti dal Made in Italy, seppure in maniera più marcata nei settori afferenti alle “3F” di Fashion, Food e Furniture.
Il BBF e i suoi tratti distintivi sono la bandiera dell’italianità nel mondo, racchiudendo in sé tutti quei beni che rappresentano l’eccellenza italiana in termini di design, cura nei dettagli, qualità dei materiali e delle lavorazioni. La facilità di riconoscere l’italianità come caratteristica di un prodotto e di apprezzarla si è affermata nel tempo in tutto il mondo, motivo per cui i consumatori sono disposti a riconoscere un valore superiore a un bene Made in Italy e a pagare di più per averlo, preferendolo ai competitor. In questo senso il “bello e ben fatto”, oltre a rappresentare una quota importante dell’export italiano nel mondo, fa da volano a tutte le esportazioni italiane, avendo un valore non solo economico, ma anche immateriale.
Dove va il BBF italiano?
Le eccellenze italiane si dirigono prevalentemente verso i mercati avanzati, che insieme ne assorbono circa 114 miliardi di euro. Ammonta invece a oltre 20 miliardi di euro il quantitativo di eccellenze esportato verso i paesi emergenti che, per il loro dinamismo (sia sul piano demografico che su quello economico), e nonostante il loro peso ancora limitato, offrono margini di crescita relativamente maggiori, a fronte comunque di rischi più elevati.
Il BBF, per sua natura, si rivolge ad una fascia di consumatori abbienti, già numerosa ma in lenta crescita nei mercati avanzati e più ridotta ma in forte crescita negli emergenti. I mercati avanzati, infatti, sebbene siano più grandi ed abbiano una richiesta più intensa di beni BBF grazie ad un reddito pro-capite più alto, presentano trend demografici ed economici relativamente lenti ed una concorrenza più elevata. Quelli emergenti, al contrario, sono più dinamici e caratterizzati da una spiccata crescita della classe media benestante. L’Asia è l’area geografica dove la classe media benestante si sta diffondendo più rapidamente, trainata soprattutto dalla Cina con uno stock di oltre 265 milioni di cittadini con redditi e standard di consumo in linea con quelli dei paesi avanzati nel 2020; questo numero potrebbe crescere di altri 70 milioni di unità da qui al 2025. In India lo stock dei nuovi ricchi è relativamente basso come incidenza sulla popolazione, ma è in forte crescita (quasi 30 milioni in più al 2025). Thailandia, Vietnam e Malaysia contano insieme per altri 35 milioni di individui ascrivibili alla classe media benestante. Altri mercati in cui è presente una ragguardevole classe media benestante sono la Russia (50 milioni), il Brasile (42) e la Turchia (30).
Il potenziale del BBF
L’analisi contenuta nel Rapporto consente di ottenere una misura del potenziale di mercato dell’Italia nell’ambito del BBF, rispetto alla quale valutare il margine di miglioramento delle posizioni fin qui acquisite. Il potenziale è calcolato valutando il possibile ampliamento delle attuali quote di mercato rispetto a quelle dei concorrenti che, per struttura dei costi di produzione e qualità dei prodotti esportati, hanno caratteristiche simili a quelle dell’Italia. Il potenziale, calcolato in 82 miliardi di euro, si ripartisce per oltre tre quarti nei paesi avanzati (62 miliardi di euro) e per la restante parte negli emergenti (20 miliardi di euro).
La realizzazione effettiva del potenziale passa attraverso la penetrazione commerciale nei paesi e nei comparti dove i margini di crescita sono maggiori. A fare da volano alle esportazioni nei paesi avanzati è la forte condivisione di gusti e standard che riflettono una sostanziale affinità dei contesti culturali. Si tratta anche dei principali paesi con cui l’Italia tesse relazioni economiche, politiche e strategiche, e con cui i legami geo-economici sono particolarmente stringenti. I paesi più importanti sono Stati Uniti (15,5 miliardi di euro), Germania (5,2 miliardi) e Francia (4,4 miliardi). Tra le economie emergenti, invece, i mercati principali sono Cina (3,9 miliardi di euro), Emirati Arabi Uniti (3,2 miliardi) e Russia (1,3).
Il documento menziona, inoltre, anche altre economie asiatiche di particolare interesse, non tanto per l’ampiezza del margine di crescita delle esportazioni, quanto per la forte espansione del mercato. Si tratta dei Paesi facenti parte della RCEP, il più grande Accordo commerciale di libero scambio al mondo, che diventerà effettivo non appena verrà ratificato da almeno sei paesi ASEAN e tre non-ASEAN; l’Accordo comprende i dieci paesi del gruppo ASEAN insieme ad Australia, Cina, Corea del Sud, Giappone e Nuova Zelanda, ossia geografie che costituiscono circa il 30% del PIL mondiale.
Il RCEP costituisce al contempo un rischio ed un vantaggio per le imprese italiane: da un lato, infatti, i Paesi dell’Accordo avranno l’opportunità di accrescere il loro potenziale di crescita e di sviluppo grazie ad un’area di scambio maggiore, di conseguenza i prodotti del Belpaese gioverebbero dell’adozione di regole comuni e di un mercato più ricco; dall’altro alcune produzioni Made in Italy potrebbero trovarsi di fronte ad una serrata concorrenza, soprattutto da parte di Paesi quali Cina, Giappone, Thailandia e Corea del Sud.
Bisogna considerare, inoltre, che l’emergenza sanitaria ha cambiato i rapporti commerciali e sociali tra i Paesi, ma non ha eliminato le tensioni geopolitiche preesistenti, come quelle tra USA e Cina, o USA e Russia con ripercussioni su UE e Italia. In tal senso, l’Asia ha fatto un passo in avanti e, di conseguenza, l’Europa non potrà che continuare sul solco degli accordi commerciali stipulati negli ultimi anni dalla UE, tutti tesi al fine di proteggere le imprese italiane ed europee in vista sia di un ingresso più semplice nei mercati strategici, sia di minori costi di produzione.
Il Ministro Di Maio, in proposito, ha sottolineato la volontà del governo italiano di “rafforzare un multilateralismo efficace che consenta una gestione sostenibile ed inclusiva di beni comuni globali, come la salute e il clima” e, quindi, instaurare “un commercio [internazionale] libero, equo, inclusivo e basato sul rispetto di regole condivise” per promuovere una ripresa sostenibile ed un’economia più digitale e green.
Si stima, comunque, una graduale e continua crescita dell’internazionalizzazione delle imprese italiane che fa ben sperare chiunque voglia intraprendere la conquista di mercati esteri, considerando che nei primi cinque mesi del 2021 si è già registrato un incremento dell’export del +23,9% rispetto all’anno precedente e del +4,6% rispetto ai primi cinque mesi del 2019.
Bisogna premere l’acceleratore sul digitale
Il Rapporto colloca il potenziale del made in Italy in un panorama internazionale in continuo cambiamento, tenendo in considerazione anche le sfide che le PMI italiane si sono trovate a fronteggiare e l’accelerazione del processo di digitalizzazione dei rapporti commerciali globali a seguito dell’emergenza Coronavirus.
L’Italia si trova sotto la media mondiale per spesa pro-capite online e i dati a disposizione dimostrano che le aziende italiane, che hanno da sempre puntato su eventi in presenza e fiere per la promozione e la distribuzione dei propri prodotti, non sono abbastanza digitalizzate rispetto agli altri Paesi. Alla luce delle analisi condotte, comunque, in Europa si registra un ritardo nel processo di digitalizzazione rispetto ai colossi USA e Cina; in compenso, secondo il Roberto Liscia, più di 50 milioni di italiani comprano online a seguito del senso d’urgenza dettato dall’emergenza Coronavirus, con acquisti che ammontano complessivamente a circa 32 miliardi di euro e con un’educazione al digital molto più avanzata rispetto al grado di digitalizzazione delle nostre PMI. Conseguentemente allo sviluppo dei canali di vendita digitali, i negozi hanno registrato un incremento delle vendite online del +45%; in un contesto del genere, sono esplosi anche settori come quello agroalimentare, altro volano dell’eccellenza italiana.
Per di più, grazie all’avvento dell’e-Commerce, il confine tra negozio fisico e digitale diventa sempre più sfocato spostandosi verso un’omnicanalità sempre più marcata. Lo store fisico ha intrapreso due direzioni fondamentali: una funzionale al servizio, dal momento che ormai svolge il ruolo di vetrina e di logistica (sempre più consumatori ordinano online e ritirano la merce in negozio), ed una funzionale d’esperienza.
Tutto ciò porta inevitabilmente ad un ripensamento delle imprese in ottica digitale, in modo tale da renderle in più competitive nel quadro internazionale, dove nel 2020 hanno registrato un fatturato relativo alle vendite online di 13 miliardi di euro per il B2C e di 127 miliardi di euro per il B2B.
Come affermato anche dal Ministro Di Maio, infatti, sui BBF la pandemia ha avuto conseguenze indirette, dovute alla restrizione della mobilità internazionale, e dirette, come la chiusura delle fiere e il cambiamento dei comportamenti e delle abitudini d’acquisto dei consumatori di tutto il mondo. Le diverse misure di contenimento hanno portato quest’ultimi a rivolgersi e all’e- Commerce molto più di quanto già non facessero prima della pandemia; per questo motivo, tra le strategie utili alla massimizzazione dell’export, l’incremento delle piattaforme digitali da parte delle aziende italiane occupa una posizione prioritaria, soprattutto se finalizzato all’ingresso in mercati estremamente digitalizzati come la Cina, l’unica tra le grandi economie internazionali ad essere cresciuta nel 2020.
Dunque, ecco quali sono le direttive da seguire secondo il rapporto per migliorare la competitività dell’Italia sui mercati internazionali, ed i consigli utili per le imprese che vogliono sfruttare le opportunità offerte da un contesto digitalizzato e globalizzato:
- Rafforzare i canali di vendita digitali, sia per promuovere una maggiore presenza del Made in Italy sulle piattaforme esistenti, sia per istituirne di nuove.
- Accelerare l’utilizzo dell’e-Commerce da parte dei consumatori, in modo da rendere il mercato italiano più ricettivo per la creazione di nuove piattaforme e per tenere il passo con i cambiamenti attuali.
- Stabilizzare le relazioni internazionali tramite nuovi trattati europei e un rinsaldamento dei legami UE-USA, anche alla luce della Presidenza Biden.
- Data l’accelerazione nell’integrazione delle filiere asiatiche attraverso il RCEP, permettere il più possibile che le imprese italiane possano cogliere le opportunità dei nuovi mercati, anche attraverso un’intensificazione delle attività di internazionalizzazione verso l’Asia.
- Preservare e, eventualmente, aumentare la riconoscibilità del Made in Italy tramite la promozione dei brand, promuovendo la creazione di marchi riconosciuti anche per le piccole e medie imprese, predisponendo vetrine dedicate e sfruttando l’omnicanalità tra luoghi fisici e virtuali.
- Incentivare la creazione di reti e consorzi di imprese volti a estrarre maggior valore dalle filiere internazionali.
Infine, trasversale a tutte le altre raccomandazioni, è la lotta alla contraffazione del Made in Italy ed al fenomeno dell’ Italian Sounding. Le dimensioni della contraffazione hanno raggiunto livelli ragguardevoli, in particolare nei settori del BBF italiano. Secondo uno studio OCSE del 2018, si attesta a 32 miliardi il valore dei prodotti italiani contraffatti scambiati a livello mondiale, il 16,7% del quale sono prodotti di abbigliamento, 15,4% prodotti legati all’ottica e all’elettronica e il 13,0% legati al comparto alimentare. Una piaga da combattere con determinazione visto che, oltre al danno economico, c’è anche quello d’immagine che non può essere quantificato ma la cui conseguenze potrebbero essere anche più devastanti di quelle propriamente pecuniarie.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Roberta Russo, redazione@exportiamo.it