Con l’elezione del nuovo presidente americano in molti si aspettano un’inversione di tendenza rispetto alle politiche messe in atto dal predecessore. Ma cosa cambierà concretamente per le imprese italiane che esportano negli Usa? Le prospettive saranno migliori di quelle attuali?

Il più giovane senatore della storia americana è diventato il più anziano presidente degli Usa: dopo aver giurato sulla Bibbia di famiglia di fronte al mondo intero lo scorso 20 gennaio, Joe Biden è ormai ufficialmente il 46esimo presidente degli Stati Uniti d’America.

L’ingresso del nuovo presidente alla Casa Bianca, peraltro reso molto burrascoso dai tristi fatti di Capitol Hill, comporterà importanti cambiamenti a livello politico, sociale ed economico, oltre che dal punto di vista delle relazioni diplomatiche e commerciali con gli altri Paesi.

Non a caso, subito dopo l’insediamento, Biden ha subito firmato 17 nuovi provvedimenti che segnano una chiara inversione di marcia rispetto alla politica trumpiana, tra cui la revoca del Travel Ban nei confronti di alcuni Paesi a maggioranza musulmana, il rientro degli Usa nell’Accordo di Parigi e nell’Oms, un’organizzazione definita “essenziale” nel contrasto alla pandemia, ed il provvedimento per mettere fine alla dichiarazione di emergenza utilizzata da Trump per reperire i fondi con i quali costruire il muro al confine con il Messico.

Atti dalla forte carica simbolica che intendono riportare l’America indietro (“America is back” ha annunciato Biden), quasi a voler cancellare con un colpo di spugna gli ultimi 4 anni della storia a stelle strisce vissuti all’insegna dell’”America first”, che di fatto, tuttavia, si era trasformato in “America alone”, isolando la maggiore potenza mondiale dal resto del globo.

L’obiettivo dichiarato del presidente neo eletto e della sua vice Kamala Harris è quello di impostare la sua politica estera sui principi del multilateralismo, recuperando buone relazioni con i maggiori attori internazionali. Tutti si aspettano questo cambio di passo come una ventata di ottimismo per rilanciare il dialogo internazionale e il commercio globale.

Cosa cambierà dunque con la nuova amministrazione dal punto di vista delle relazioni commerciali? E cosa dovranno aspettarsi le imprese italiane?

Le priorità saranno sicuramente riallineare le relazioni economiche con la Cina compromesse da Trump, rientrare nei trattati internazionali, rafforzare il legame con la NATO, rivedere l’accordo sul nucleare con l’Iran siglato durante la presidenza Obama e dal quale Trump si è ritirato, sponsorizzare nuovi accordi commerciali e di libero scambio a partire dall’Unione Europea e dal Regno Unito, rilanciando le relazioni transatlantiche con i Paesi alleati storici.

Il versante Pacifico…

In primis, sarà di fondamentale importanza ridisegnare le geometrie nel Pacifico, a partire dalla ricostruzione dei rapporti con i Paesi che avevano aderito al TPP (Trans Pacific Partnership), l’accordo tra 12 Paesi tra cui USA, Canada, Giappone, Vietnam e Australia voluto da Obama e poi cancellato da Trump appena insediatosi alla Casa Bianca nel 2017, con il risultato che i restanti 11 Paesi hanno siglato l’accordo di libero scambio CPTPP (Comprehensive and Progressive Trans Pacific Partnership) nel 2018 lasciando fuori gli USA.

Inoltre, qualche mese fa la Cina ha siglato il RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership), il più grande accordo di libero scambio al mondo che coinvolge 15 Paesi (Cina, le 10 economie ASEAN, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda) i quali rappresentano il 30% della popolazione e il 30% del PIL globale.

Anche in questo caso è evidente che si debba fare qualcosa per controbilanciare lo strapotere acquisito da Pechino nella regione, anche perché nonostante l’imposizione dei dazi doganali voluti da Trump su 250 miliardi di export cinese verso gli USA, la bilancia commerciale tra import ed export ha segnato nel 2019 un valore negativo per parte americana, con un deficit di 345 miliardi di dollari e questo valore negativo si è maggiormente ampliato arrivando a 421 miliardi di dollari nei primi 3 trimestri del 2020.

Inoltre, non va dimenticato che sono proprio gli USA ad avere bisogno della Cina più di quanto la Cina abbia bisogno degli USA dal momento che il Paese del Dragone detiene 1,07 triliardi di dollari di debito pubblico americano.

… e quello Atlantico

Per quanto riguarda l’Europa invece, durante la presidenza di Trump, le relazioni fra i due lati dell’Atlantico sono state dominate dalla reciproca imposizione di dazi e restrizioni commerciali. In seguito alla risoluzione della controversia fra Airbus e Boeing da parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio nell’ottobre del 2019, l’amministrazione statunitense ha imposto $7,5 miliardi di dazi sui prodotti provenienti dall’Europa.

Mentre una seconda amministrazione Trump avrebbe probabilmente portato a nuovi (e maggiori) dazi, il consigliere per la politica estera di Biden Anthony Blinken ha affermato che la nuova presidenza “metterà fine alla guerra commerciale artificiale con l’Europa”.

Detto questo, è molto improbabile che Biden proponga all’Europa un nuovo accordo commerciale paragonabile al TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) di cui Barack Obama era fautore e che al momento è in una situazione di stallo. Il piano di ripresa economica di Biden, infatti, è fortemente incentrato sul mercato interno e prevede uno schema da 400 miliardi di dollari chiamato “Made in All of America”, che incentiverà gli acquisti governativi di beni nazionali e favorirà il ritorno delle principali filiere industriali negli Stati Uniti.

Eppure, nonostante queste tendenze protezionistiche, Biden mirerà quasi certamente a ristabilire la pace nelle relazioni commerciali e a promuovere una maggiore apertura nelle comunicazioni tra Stati Uniti ed Europa.

Cosa cambia per il Made in Italy?

Nonostante la guerra commerciale voluta da Trump abbia ostacolato le relazioni economiche fra Stati Uniti e gran parte dell’Europa, negli ultimi quattro anni i rapporti tra Usa ed Italia hanno risentito in maniera minore del declino generale delle relazioni transatlantiche rispetto ad altri Paesi europei.

I volumi degli scambi commerciali tra i due Paesi, in crescita da 10 anni, hanno infatti mantenuto un trend positivo: sono aumentati nel 2019 e a giugno 2020 gli Stati Uniti erano il terzo mercato di esportazione per i prodotti italiani dopo Germania e Francia. A partire da maggio 2020, le importazioni americane dall’Italia sono diminuite drasticamente, ma questo calo è in gran parte ascrivibile alla pandemia di COVID-19.

Il mercato a stelle e strisce rimane dunque di fondamentale importanza per il Made in Italy. A parte le prospettive positive per le aziende della filiera “green”, dai veicoli elettrici al fotovoltaico, vista la sensibilizzazione di Biden per le tematiche legate al cambiamento climatico e il suo obiettivo di far diventare gli USA un Paese a zero emissioni entro il 2050, i settori con il maggior potenziale rimangono i classici “best seller” come la meccanica di precisione, il farmaceutico e le varie declinazioni del Luxury nelle 3 F del Food, Furniture e Fashion, simbolo del lifestyle del Belpaese.

Sembra allontanarsi lo spettro di ulteriori dazi per i prodotti della filiera agro-alimentare (che nel 2019 ha registrato un valore export di 4,8 miliardi di euro e ha registrato un incremento del 4% nei primi 3 trimestri del 2020), in particolare per pasta, olio e vino. Ci si aspetta inoltre che Biden eliminerà i dazi del 25% imposti da Trump su prodotti quali salumi, formaggi e liquori.

Quello che adesso ci aspettiamo tutti è quanto auspicato dal presidente nazionale di Cia, Dino Scanavino, il giorno dell’insediamento ufficiale di Joe Biden: “L’agroalimentare è un settore particolarmente sensibile agli scambi commerciali, con un export che vale oltre 42 miliardi di euro nel 2020, e proprio gli Stati Uniti rappresentano un mercato assolutamente strategico per le esportazioni di cibo e bevande tricolori. Per questo, ci auguriamo che la nuova amministrazione Biden segni un ritorno al dialogo e al multilateralismo, attraverso accordi e decisioni condivise sulla vicenda Airbus e Boeing e sulla tassazione dei servizi digitali, per sorpassare l’incubo dazi doganali e ampliare, invece, le opportunità di creare ricchezza attraverso l’export”.

“Entrare in un mercato così vasto e complesso, però, richiede programmazione, analisi e preparazione per evitare di sprecare occasioni, tempo e denaro. Ecco perché affidarsi a chi conosce profondamente il territorio è fondamentale per non fallire”, conclude.

Ed anche su questo punto, ovviamente, non possiamo che essere d’accordo.

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Fonte: a cura di Exportiamo, di Miriam Castelli, redazione@exportiamo.it

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