La pandemia in corso ha portato ancor più sotto i riflettori il ruolo degli Stati Uniti e della divisa del dollaro a livello globale, tema che nella storia è sempre apparso al centro dell’attenzione ma che oggi sembra ancor più importante viste le sue implicazioni nella ridefinizione del nuovo ordine politico ed economico mondiale.
Come in ogni episodio di crisi economica mondiale, gli Stati tendono ad adottare politiche monetarie e fiscali espansive che permettano alle aziende ed ai consumatori di reagire alla crisi, puntando alla crescita del Pil e dunque del benessere economico. Questo implica variazioni nei rapporti di cambio delle valute mondiali, quindi una rimodulazione o ridefinizione degli equilibri commerciali e di conseguenza variazioni nelle posizioni di egemonia delle potenze economiche.
Focalizzandoci sul rapporto tra le due valute, quella europea e quella americana, senza ridimensionare l’importanza delle altre, come il yuan, che pur influenza indirettamente il contesto valutario, la situazione in corso è alquanto strana.
Quello che pare stia accadendo nel mercato è un indebolimento sostenuto del dollaro (deciso dalla Banca Centrale Americana) a favore di un apprezzamento (apparente o meno) dell’euro. Ma cosa significa in termini pratici e quali effetti ha sulle imprese italiane che importano dagli USA o che vi esportano?
Semplificando, potremmo dire che il dollaro, deprezzandosi, rende i beni americani molto più appetibili, permettendo alle aziende italiane, ed in generale alle nazioni con valuta in euro, di sostenere costi più bassi per gli acquisti di materie prime e semilavorati utilizzati per la produzione del prodotto finale. Dunque, ciò consentirebbe alle aziende di beneficiare di costi di produzione inferiori (per il minor costo delle materie prime, semilavorati ed in generale del costo del petrolio) che compensano i margini di vendita più bassi su alcuni mercati.
Di contro, l’euro apprezzandosi svantaggia la vendita di prodotti in valuta EU nei mercati americani dato che l’acquirente (società o consumatore) americano sarebbe soggetto ad un dispendio maggiore di risorse monetarie per l’acquisto dello stesso bene europeo. L’effetto sulle imprese italiane, comunque, dipende molto dalla natura dei beni commerciati. Prodotti finiti ricavati in Italia, come per esempio quelli dell’agroalimentare – la cui quota export insieme a bevande e tabacchi raggiunge l’8% secondo i dati Istat - verrebbero totalmente svantaggiati da questa attuale condizione del rapporto valutario, mentre prodotti finiti ricavati dalla lavorazione di semilavorati importati dagli USA, come per esempio i prodotti dell’industria automotive, potrebbero usufruire del vantaggio di una moneta europea più forte seppur soffrendo di minori margini di vendita.
Tuttavia, in una recente intervista, il Dott. Paolo Scudieri, Presidente di Alder Group e dell’Anfia, ha rimarcato una situazione divergente da quella sopracitata. Secondo Scudieri, infatti, si sta verificando una condizione di sofferenza per le imprese dedite all’export e contrariamente a quanto previsto, questo non esclude le imprese che importano materie prime e trattano semilavorati. Infatti, attualmente queste si vedono “schiacciate in una morsa” tra mancati benefici di riduzione di costo – che inspiegabilmente non vengono trasferiti dai loro fornitori internazionali- e minori margini di vendita dovuti all’apprezzamento della propria moneta.
Dunque, le condizioni dei prezzi di mercato alquanto strane, le decisioni espansive della FED che manterranno il dollaro più debole al fine di spingere per la ripresa economica americana, ed un impegno di monitoraggio da parte della BCE ancora debole (le ultime dichiarazioni non hanno influenzato il rapporto in questione) sembrano paventare delle prospettive poco rosee per le imprese italiane.
Come anticipato poc’anzi, anche durante la pandemia il dollaro ha confermato la sua posizione di dominio nel mondo. Secondo i dati del FMI, la valuta americana ha visto nel primo semestre 2020 una variazione positiva delle sue riserve mondiali che supera l’1% a discapito delle riserve europee. Difatti, uno storico dominio della valuta USA nel commercio internazionale (soprattutto nelle economie emergenti) ed un sempre maggiore debito pubblico delle stesse in valuta americana, consolidano sempre più la posizione del dollaro e dunque il suo valore.
Come evidenziato da Marcello Minenna, direttore generale dell’Agenzia delle Dogane, nonostante la valuta europea abbia superato negli scambi commerciali del primo semestre quella del dollaro, secondo l’ultimo studio Swift il dato ha risentito in parte del sopracitato apprezzamento dell’8,7% dell’euro sul dollaro, ma soprattutto dell’impatto asimmetrico della recessione sul commercio globale. Difatti, questa ha ridotto in maniera considerevole il commercio tra le economie emergenti, tenuto prettamente in valuta USA. Dunque, come tra l’altro ribadito da Minenna, terminato il periodo di shock economico seguirà un riallineamento delle posizioni euro/dollaro.
Se è vero che il dollaro potrebbe tornare ad apprezzarsi con il riprendere degli scambi commerciali internazionali, è anche vero che la FED ha chiara la volontà di tenere bassi i tassi per un lungo periodo di tempo. Le decisioni economiche espansive provenienti dall’Unione Europea, in aggiunta a quanto sarà dettagliato nel Recovery Plan, sicuramente fungeranno da supporto per il tessuto produttivo italiano ed europeo. Tuttavia, secondo quanto affermato da Scudieri, sarebbe opportuno che lo Stato offrisse delle soluzioni di garanzia pubblica che possano facilitare la negoziazione di contratti tra imprese e banche per la protezione e distribuzione dei costi penalizzanti legati alle variazioni dei cambi.
In conclusione, le misure stanziate potrebbero non essere sufficienti per reggere le incertezze legate all’instabilità del commercio internazionale e delle relative conseguenze. I grandi gruppi potrebbero riuscire a mitigare i rischi, grazie alla loro presenza produttiva in diversi Paesi del mondo, seppur ancora consistenti sono i dubbi relativi alle misure europee di sostegno alle imprese. Di contro, le PMI esportatrici legate alle materie prime italiane e alla produzione completa del prodotto nel Belpaese saranno svantaggiate da tale situazione.
Ciò che ci si augura è che il dialogo istituzionale possa convergere verso un sistema di misure di sostegno alle imprese che dia seguito e integri quelle già previste di recente, fungendo da “scudo” in questo periodo più complicato per i processi di esportazione.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Gianluca Totaro, redazione@exportiamo.it
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