Molte aziende del settore fashion negli ultimi anni hanno riadattato il loro modello di supply chain per far fronte ai cambiamenti e alle richieste dei consumatori, molto più esigenti rispetto al passato.

Oggi ciò che conta è la capacità di essere rapidi, ridurre i tempi di produzione ed accorciare l’orizzonte temporale che va dall’ideazione del prodotto alla vendita dello stesso nel mercato: i consumatori si aspettano molte più proposte annuali e le tradizionali due o quattro stagioni lasciano spazio all’introduzione di nuovi capi ogni settimana.

In passato, tutte le aziende del settore fashion intente ad operare con programma stagionale avevano difficoltà a prevedere tipi e quantità di stili, dimensioni, colori, rimanendo spesso con inventari in eccesso, da vendere a prezzi ancora più bassi o da demolire, scontrandosi quindi con una voce di costo non indifferente.

Con il modello fast-fashion, che si concentra su rilasci più frequenti durante tutto l’anno, è molto più semplice stimare le previsioni e diminuire l’invenduto.

Ecco dunque che i rivenditori hanno individuato un vantaggio competitivo non solo nel prezzo ma anche nei rapidi tempi di risposta alle esigenze del mercato.

Il prezzo rimane uno dei driver più importanti: il modello di business deve prevedere che la velocità nella produzione sia comunque affiancata da prezzi accessibili a chiunque, in linea con la democratizzazione della moda a cui si sta assistendo negli ultimi anni e che permette di trovare capi di abbigliamento che rispecchiano le tendenze viste in passerella, ma con prezzi decisamente inferiori rispetto ai grandi marchi.

E proprio grazie al prezzo inferiore a cui il capo può essere acquistato, i consumatori sono meno attenti all’effettivo utilizzo che ne verrà fatto e sono portati a fare acquisti impulsivi e a cercare continuamente nuovi capi per rimanere al passo con le ultime tendenze.

Per ciò che concerne i tempi di risposta invece, la fast fashion supply chain prevede di abbreviare le catene di approvvigionamento ed assicurare il controllo diretto su progettazione, produzione e logistica, così come sulla fornitura di materie prime, andando quindi verso l’integrazione verticale. Solo in questo modo è possibile ottenere tempi di consegna più brevi, maggiore flessibilità, controllo del processo, minori rischi, maggior controllo sulla qualità.

L’integrazione verticale permette di reagire in tempo reale ai gusti dei consumatori, valutando accuratamente la domanda e quindi rispondendo con processi di produzione a ciclo rapido.

Risulta quindi determinante, per poter operare in questo modo, la scelta rispetto alla localizzazione di fornitori ed impianti produttivi: indipendentemente dal fatto che i servizi di produzione siano mantenuti all’interno dell’azienda od esternalizzati, essi devono rimanere il più vicino possibile alla base. La scelta ricade quindi su fornitori locali e regionali per evadere gli ordini sensibili al tempo debito, mentre fornitori remoti a basso costo vengono considerati in caso di prodotti “evergreen”.

Il modello fast fashion ha modificato anche la gestione dei ruoli di progettazione e produzione: ai designer non spetta più la sola creazione degli articoli, ma devono anche considerare come questi possano essere fabbricati e in che modo i processi produttivi influenzeranno poi la catena di approvvigionamento.

Il modello vincente di Zara

Zara è stata ed è tuttora in grado di trasformare rapidamente l’alta moda di strada direttamente da disegni ispirati alle passerelle di Milano e New York. Non a caso, il New York Times utilizzò il termine “fast fashion” in occasione dell’apertura a New York del primo store della casa di moda spagnola. La missione risultava essere quella di far passare un capo dalla mente del designer alla vendita sugli scaffali in 15 giorni. Oggi Zara vanta circa 300 designers che originano 12.000 nuovi progetti ogni anno con tempi di produzione di poche settimane.

Il brand è in grado di implementare una produzione veloce e di adattare le nuove collezioni in pochi giorni, qualora queste non riuscissero a vendere, grazie ad una logistica di risposta ed una catena di fornitura rapide. Produzione centralizzata e lavoro a stretto contatto con i fornitori in Spagna e dintorni permettono di consegnare i prodotti ad un ritmo senza precedenti. Il modello di business di Zara è difficile da emulare, soprattutto su scala globale. Zara riesce a creare le proprie “mini stagioni”, eliminando il ciclo di collezioni moda primavera, estate, autunno e interno.

Inoltre l’azienda raccoglie e sfrutta i feedback dei consumatori, grazie alla comunicazione diretta con i negozi e i team di gestione, trasformandoli in dati di domanda da analizzare e considerare nel lancio delle nuove gamme di abbigliamento da far uscire entro un mese.

Il modello di Zara è stato replicato da tante altre realtà del settore e la sua diffusione negli anni è aumentata esponenzialmente. Oggigiorno, quello che più preoccupa i consumatori è l’impatto ambientale che tali modelli potrebbero avere.

Ed è per questo che le aziende stanno promuovendo piani di sostenibilità ambientale da sviluppare in parallelo con l’implementazione delle loro strategie di business.

Zara, ad esempio, ha recentemente annunciato il proprio piano per una svolta verso la sostenibilità, promettendo di attuare entro il 2025 diverse misure restrittive per diminuire il proprio impatto ambientale che includono ad esempio l’eliminazione di prodotti in plastica monouso, tra cui sacchetti e borse destinati ai clienti, l’utilizzo in uffici, negozi e magazzini di energia proveniente per l’80% da fonti rinnovabili, la riduzione al minimo dei rifiuti.

Quella di diventare un’azienda sostenibile è una sfida non da poco per i marchi che producono abbigliamento con l’adozione di un modello fast fashion, ma sicuramente rappresenterà un punto chiave per chi vorrà avere successo in un mercato sempre più attento all’eco-sostenibilità.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Giulia Rocchetti, redazione@exportiamo.it

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