La recente tornata elettorale danese che ha visto vincere, seppur di misura, il partito socialdemocratico ha evidenziato le qualità del futuro “Statsminister” – Mette Frederiksen – una 41enne determinata a promuovere un modello di sinistra atipico che mescola tolleranza zero nei confronti dei migranti, grande attenzione alle istanze ambientaliste e difesa del welfare state.

Faccio compromessi su tutto ma non sull’immigrazione”. Non lascia certo spazio all’immaginazione la posizione di Mette Frederiksen, nuovo astro nascente della sinistra europea, nei confronti delle politiche d’immigrazione che ha intenzione di portare avanti nel corso dei prossimi quattro anni. La leader socialdemocratica, infatti, è riuscita a costruire il proprio successo elettorale superando “a destra” i conservatori guidati dal premier uscente Lars Lökke Rasmussen che già avevano iniziato ad utilizzare il pugno duro nei confronti dei migranti, come dimostra l’esiguo numero di richieste d’asilo accolte nel corso del 2018, appena 1.618. Solo qualche settimana fa, inoltre, era stata depositata dal governo di centro-destra anche la proposta di legge che prevedeva “sgomberi a tappeto” nei 30 quartieri multietnici del Paese caratterizzati da un’elevata percentuale di migranti (con riassegnazione degli alloggi a giovani coppie danesi) e la predisposizione di corsi di lingua e cultura danese obbligatori per i bambini domiciliati in quelle aree, nonché aggravi di pena automatici per tutti i residenti in quei quartieri, se condannati in un processo. Provvedimenti durissimi che, se approvati, certificherebbero quanto il malcontento dei danesi nei confronti dei migranti – da molti considerati alla stregua di delinquenti – abbia trovato una “risposta normativa” davvero preoccupante.

La grande attenzione nei confronti di questo tema da parte della popolazione danese (appena 5,6 milioni di persone) deriva dal fatto che in Danimarca, nel corso dell’ultimo ventennio, la percentuale di migranti sul totale è praticamente raddoppiata arrivando a sfiorare il 9%, vale a dire – più o meno – mezzo milione di persone.

Una situazione che ha iniziato ad esasperare una cospicua parte di danesi a tal punto che ha incontrato diffuso gradimento la proposta della destra di confinare su una piccolissima isola disabitata da quasi 30 anni (Lindholm) tutti gli immigrati che non è possibile rimpatriare per ragioni umanitarie. E, se si considera che fino ad oggi l’isola è stata utilizzata per stipare i cani malati e contagiosi, utilizzandoli come cavie in attesa di abbatterli, la proposta assume una valenza simbolica piuttosto inquietante. Il pensiero della Frederiksen comunque è chiaro: “Non c’è posto per tutti e chi arriva deve rispettare la nostra società”. Così, quando lo scorso anno il governo di centro-destra ha approvato le leggi più dure sull’immigrazione della storia del Paese, la Frederiksen ha deciso di non opporsi agevolando sia l’entrata in vigore del divieto d’indossare burka e niqab in pubblico sia il sequestro, da parte della polizia danese, dei beni dei rifugiati per recuperare i soldi spesi dallo Stato.

Tuttavia per quella che, con ogni probabilità, diventerà la più giovane premier nella storia del Paese scandinavo non sarà affatto facile governare poiché l’opzione più verosimile sembra essere quella della formazione di un governo di minoranza, visto e considerato che, sebbene il “red block” (formato da Socialdemocratici, Socialisti-liberali, ‘Lista dell’Unità e Partito Popolare Socialista) abbia complessivamente ottenuto 91 dei 179 seggi del Parlamento danese, gli altri partiti di sinistra non sembrano condividere le idee socialdemocratiche in materia d’immigrazione.

Inoltre i socialdemocratici non hanno ottenuto un numero di voti tale da poter agire da dominus incontrastato nel panorama politico danese (25,9%) superando i liberali di Rasmussen (23,4%) di appena 2,5 punti percentuali. Tuttavia i socialdemocratici hanno rifiutato seccamente la proposta del primo ministro uscente di formare un governo di grosse koalition che avrebbe tagliato fuori gli alleati di sinistra. Chi invece ha subito un sensibile ridimensionamento è stato il Partito Popolare Danese, d’ispirazione sovranista e xenofoba nonché principale alleato di governo dei liberali, crollato dal 21 all’8,7%. Bene invece entrambe le formazioni ecologiste, il Partito Popolare Socialista (7,7%) e la Lista dell’Unità (6,9%), che avranno un peso non indifferente nel corso della prossima legislatura, ed il Partito Socialista Liberale (8,6%) che ha quasi raddoppiato i consensi rispetto al 2015.

In ogni caso, nonostante la situazione si presenti intricata, la Frederiksen ha subito mostrato di voler agire con pragmatismo, lasciando aperta ogni opzione: “Facciamo i conti con la realtà, ascoltiamo cosa ci dicono i cittadini, e facciamoci di nuovo forza di governo”.

E’ bene però specificare che, accanto al tema dei flussi migratori, ci sono stati altri temi decisivi per la vittoria della Frederiksen. Fra questi la tutela del generoso welfare state danese, messo in crisi dal processo d’invecchiamento della popolazione, che i socialdemocratici vorrebbero rinforzare stanziando, ogni anno, risorse aggiuntive pari allo 0,8% del Pil nazionale da recuperare aumentando le imposte a classe benestante ed aziende e riformando, parzialmente, i criteri d’accesso alla pensione. Infine non bisogna dimenticare che la prima preoccupazione degli elettori danesi, stando ai sondaggi, rimane quella di fare qualcosa per combattere il cambiamento climatico ed in particolare il riscaldamento globale che sta pericolosamente accelerando lo scioglimento dei ghiacciai della Groenlandia, territorio danese autonomo.

In definitiva, nonostante performance economiche eccellenti (Pil in crescita sopra la media Ue, diffuso benessere, disoccupazione inferiore al 4%), dalle urne danesi è arrivato un innegabile desiderio di cambiamento che starà ora alla Frederiksen soddisfare. Tuttavia – soprattutto in politica – fra il dire ed il fare c’è una bella differenza ma va detto che l’atteggiamento della leader socialdemocratica sembra essere estremamente concreto: “Faccio sempre una lista delle cose da fare. E mi piace tirare una riga su quelle fatte, per passare alla successiva”.

Per queste ragioni sembrano sussistere tutti i presupposti perché, nei prossimi quattro anni, il nuovo governo porti a termine numerosi cambiamenti seguendo una “ricetta sui generis” che mescola tratti securitari tipici di esecutivi di destra in materia di sicurezza e proposte fortemente orientate a sinistra su temi che riguardano spesa pubblica, welfare state ed ambiente. E chissà che l’eventuale successo di questo “laboratorio” non costituisca la prima pietra per un “cambiamento genetico” dei partiti di sinistra europei che, negli ultimi anni, hanno molto sofferto (in termini elettorali) l’ascesa di nazionalismi e populismi.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it

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