Via della Seta: opportunità per l’export Made in Italy o “cavallo di Troia”?

Via della Seta: opportunità per l’export Made in Italy o “cavallo di Troia”?

26 Marzo 2019 Categoria: Marketing Internazionale Paese:  Cina

Il MoU (memorandum of understanding) siglato lo scorso 23 marzo a Roma da Italia e Cina ha suscitato un vespaio di polemiche a livello internazionale provocando anche attriti tra gli alleati che compongono la maggioranza di governo. Scopriamo insieme perché la firma di un documento che non produce alcun obbligo giuridico ha prodotto reazioni così forti.

Diciamolo subito: il MoU che comprende 29 accordi (19 istituzionali e 10 commerciali) siglato nella meravigliosa cornice di Palazzo Madama nell’ultimo giorno della visita romana del premier Xi Jinping rappresenta, sostanzialmente, poco più di una dichiarazione d’intenti e non ha impegnato o “svenduto” il Belpaese all’ex Celeste Impero come alcuni commentatori si sono affrettati a dichiarare.

L’accordo però ha una certa importanza perché rappresenta la chiara volontà politica della Penisola di stringere una relazione sempre più stretta con l’alleato cinese sebbene “nel rispetto dell’unità europea e dell’amicizia con gli Stati Uniti”. Una precisazione fortemente voluta dal presidente della Repubblica Mattarella dopo le polemiche che hanno preceduto l’incontro. Il ruolo del capo dello stato è infatti apparso fondamentale per rassicurare gli alleati storici e per ribadire a Pechino che non ci potrà essere una partnership solida se i cinesi non agiranno per combattere alcuni fenomeni come l’Italian Sounding, la concorrenza sleale e l’imposizione di barriere commerciali che danneggiano l’export italiano verso la Cina.

Ecco, l’export. Questo è uno dei punti centrali dell’accordo che intende aprire alle Pmi del Belpaese la strada dell’immenso mercato cinese, ancora troppo poco “battuto” per una serie di ragioni. E dunque anche se gli accordi conclusi spaziano dai settori del commercio e della fiscalità a quelli dell’energia e delle infrastrutture fino ad arrivare ad archeologia ed industria spaziale, senza tralasciare il turismo, la volontà di fondo appare quella di tentare di riequilibrare una relazione commerciale troppo sbilanciata a favore della Cina, non tralasciando il tema dei diritti umani, riproposto con decisione dalla più alta carica dello stato italiano (”Alla luce del mandato italiano nel consiglio per i diritti umani dell’Onu, desidero auspicare che, in occasione della sessione del dialogo Ue-Cina sui diritti umani che si svolgerà a Bruxelles dopo quella che si è svolta a Pechino lo scorso luglio, si possa proseguire in un confronto costruttivo sui temi così rilevanti“).

Oggi comunque le vendite di prodotti italiani verso Pechino sono pari a 13,169 miliardi di euro, meno della metà di quanto importiamo dalla Cina, ovvero 30,780 miliardi. Numeri che lasciano poco spazio alle interpretazioni e che evidenziano, per giunta, dei trend poco confortanti: nel 2018 l’export italiano si è ridotto del 2,4% a fronte di un sensibile incremento degli acquisti italiani di prodotti Made in China, cresciuti dell’8,2%.

Non è quindi casuale che oggetto dell’intesa sia stato il tema dell’e-commerce in cui si è evidenziata la volontà italiana di promuovere una maggiore penetrazione delle imprese italiane sulle piattaforme di vendite online cinesi. Oggi in effetti, con quasi 700 miliardi di dollari, la Cina rappresenta – nei numeri – il principale mercato digital al mondo e tutto lascia presagire che continuerà ad esserlo vista e considerata l’ascesa di una middle-class (che dovrebbe passare dagli attuali 300 a ben 500 milioni di consumatori entro il 2025) che effettua acquisti principalmente tramite smartphone (oltre l’80% delle transazioni). Inoltre va detto che il rafforzamento dell’export italiano verso la Cina è fondamentale anche perché i nostri competitor Ue fanno molto meglio di noi come si evince dai dati sull’export tedesco (94 miliardi di euro), inglese (23 miliardi) e francese (21 miliardi). In più anche gli IDE in entrata sono molto più modesti rispetto a quelli dei nostri principali competitor europei: fra il 2008 ed il 2018 abbiamo accolto “solo” 15 miliardi di euro di investimenti cinesi, vale a dire circa il 30% in meno rispetto alla Germania (22,2 miliardi di euro) e solo 1/3 rispetto al Regno Unito, capace di attrarre – nello stesso arco temporale – ben 46,9 miliardi di euro.

Un altro tema delicato sul quale è stato trovato un accordo è la cooperazione scientifica e tecnologica tra startup italiane e cinesi: un terreno scivoloso soprattutto se si considera che nell’intesa si parla anche di un’attività di promozione di parchi scientifici e tecnologici, cluster industriali e investimenti in venture capital che possano consentire alle startup innovative una prospettiva di crescita internazionale, attraverso lo scambio di conoscenze, di processi e di persone. Come si intuisce in effetti più di un problema potrebbe sorgere in materia di proprietà intellettuale e dunque, per evitare che le aziende vengano penalizzate dalla condivisione di informazioni di natura industriale, la corretta implementazione dell’accordo verrà seguita per la parte italiana dalla task force Italia-Cina, istituita presso il Mise. In tal senso si segnala la riduzione del numero di accordi (da circa 50 a 29), specialmente nei settori più sensibili, con il congelamento del discusso accordo di ricerca tra Huawei e il Politecnico di Milano.

Un ulteriore aspetto nodale del MoU riguarda i due accordi di cooperazione relativi ai porti di Trieste e Genova conclusi con la China Communication Construction Company (CCCC), colosso cinese del comparto edile e braccio operativo del governo in tema di infrastrutture. In particolare l’intesa sul porto di Genova prevede interventi per lo sviluppo dello scalo, l’ampliamento dei moli e la realizzazione di una nuova diga (opera da un miliardo di euro). In generale i diversi interventi infrastrutturali di potenziamento dovrebbero portare al raddoppio dei volumi movimentati. Per quel che riguarda invece l’intesa che coinvolge il porto di Trieste è bene specificare che si tratta di un progetto, chiamato Trihub, che non riguarda solo il porto ma comprende una serie di investimenti sul sistema delle infrastrutture ferroviarie a Trieste, Villa Opicina, Monfalcone e Cervignano per potenziare i collegamenti con l’Europa centrale e dell’Est.

In conclusione secondo l’altro grande protagonista dell’intesa, il ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, “solo gli accordi firmati qui oggi in sostanza valgono 2,5 miliardi di euro. Accordi che hanno un potenziale di 20 miliardi di euro“. Numeri che dovrebbero da soli smussare le forti perplessità espresse dal ministro degli Interni Matteo Salvini che oltre a non partecipare a nessuno degli incontri ha espresso il proprio disappunto (”Non mi si dica che la Cina è un paese con il libero mercato“) sottolineando la necessità di “andarci cauti quando c’è in ballo la sicurezza nazionale” ma aggiungendo comunque di essere contento della visita del presidente cinese e dell’apertura dei mercati ma solo “a parità di condizioni“.

Insomma un botta e risposta che ha evidenziato le diverse vedute di M5S e Lega con Di Maio che ha voluto rincarare la dose affermando che “Salvini ha il diritto di parlare, io da ministro ho il dovere di fare“.

Ad oggi comunque la Via della Seta o Belt and Road Initiative (Bri) che dir si voglia rimane un progetto “aperto” dalle molteplici possibili implicazioni per l’economia italiana. Da un lato, infatti, potrebbe rappresentare un’opportunità unica per le Pmi nostrane che cercano sui mercati esteri uno “sfogo” alle proprie produzioni ma, dall’altro, potrebbe rivelarsi anche una minaccia finendo per diventare una sorta di “cavallo di Troia” nelle mani di Pechino per accrescere la propria influenza sul Belpaese, tutelando i propri interessi e trasformando la Penisola in uno scalo logistico utilizzato per migliorare gli affari cinesi in Nordafrica, Grecia, Slovenia, Ungheria e altri Paesi limitrofi. Un risultato che per quella che, nonostante le innegabili difficoltà, rimane l’ottava economia mondiale sarebbe quantomeno riduttivo, per non dire deprimente.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it

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