Nel 2008 l’economista americano Nouriel Roubini esordì ad un seminario affermando che “quando gli Stati Uniti starnutiscono, il resto del mondo prende il raffreddore”. Una frase emblematica che sta ritornando in auge negli ultimi mesi a causa delle tensioni commerciali tra Pechino e Washington che potrebbero avere significative ripercussioni sul Vecchio Continente (e non solo). La domanda da porsi è: dopo un 2018 da record cosa possiamo aspettarci dall’economia a stelle e strisce nei prossimi mesi?

Il 2018 è stato un anno molto positivo per l’economia statunitense come dimostrano i numeri dei principali indicatori macroeconomici. Infatti secondo gli ultimi dati del FMI il Pil americano ha raggiunto quota 20.513 miliardi di dollari grazie ad una crescita del 3% rispetto al 2017 mentre il PIL pro capite si è attestato a 62.517$ nel 2018, in crescita del 5,1% rispetto all’anno precedente. Inoltre lo scorso anno è stato raggiunto anche il record di occupati (156,9 su 163,1 milioni della forza lavoro disponibile) con il tasso di disoccupazione che è sceso ai minimi storici attestandosi al 3,8% nel mese di febbraio. In più sono aumentati anche i salari (+4%) specialmente grazie ai tagli fiscali promossi da Trump ed alle politiche del “minimum wage” che i singoli Stati americani hanno portato avanti. Allo stesso tempo l’inflazione è rimasta sotto controllo tanto che a febbraio 2019 è diminuita dell’1,5% dopo il picco del +2,9% toccato a luglio 2018.

Le previsioni

Secondo il FMI il PIL degli Stati Uniti dovrebbe raggiungere, nel 2022, quota 23.874 miliardi di dollari con una crescita più lenta rispetto al 2018 e nella fattispecie del +2,54% e del +1,82% nel prossimo biennio. Il PIL pro capite dovrebbe superare quota 70.000$ nel 2022, mentre l’inflazione dovrebbe mantenersi in una forbice di aumento compresa tra il 2 ed il 2,5% da qui al 2023. Il tasso di disoccupazione è previsto ancora in ribasso nel 2019 (3,3%) tanto che alcune aziende si sono dette già preoccupate per la reperibilità di alcuni profili lavorativi specializzati. Interessante anche il dato dell’US Census of Bureau sulla popolazione che, in uno scenario di crescita media, potrebbe arrivare dagli attuali 328 fino a 360 milioni entro il 2030 con un tasso medio di aumento compreso tra lo 0,5 e 0,8% annuo.

Infine un riferimento anche alle stime sui consumi: secondo il Conference Board dopo una fase di boom relativa agli ultimi due trimestri del 2018 (+3,5 e +3,1%), la spesa dei consumatori dovrebbe attestarsi in un range di crescita compreso tra il 2,4 ed il 2,8% annuo fino al 2020. Il Consumer Sentiment, indice misurato dall’Università del Michigan, dopo una flessione registrata a gennaio 2019, a causa delle incertezze dei consumatori sulla politica interna scaturite dallo shutdown più lungo di sempre, è risalito a 97,8 tornando ai livelli di metà 2018. Insomma quello che si intravede è un quadro economico positivo che allontana (per ora) lo spettro della recessione che aleggiava sull’economia di Washington qualche mese fa.

La bilancia commerciale

Nel 2018 gli Stati Uniti hanno fatto registrare una bilancia commerciale globale negativa pari a 621 miliardi di dollari (+12.5% rispetto al 2017) frutto di importazioni di beni e servizi per 3.121 miliardi ed esportazioni per 2.500 miliardi. Al primo posto tra i Paesi fornitori si conferma la Cina che ha esportato verso Washington 539,5 miliardi di dollari con una quota di mercato pari al 21.2% ed un surplus positivo di ben 419,2 miliardi che costituisce il 67,5% del deficit commerciale totale degli Stati Uniti. Seguono Messico (346,5 miliardi di dollari esportati), Canada (318,5), Giappone (142,6), Germania (125,9), Corea del Sud (74,3), Regno Unito (60,8), Irlanda (57,5) e Italia (54,7). Secondo il FMI le importazioni, dopo una crescita del 6,8% nel 2018, dovrebbero ancora aumentare del 6,6% nel 2019 e del 4,99% nel 2020. Per ciò che concerne il medio-lungo periodo esse dovrebbero rallentare solo a partire dal 2022.

Va comunque segnalato che i recenti dazi imposti sui prodotti Made in China hanno praticamente dimezzato il surplus commerciale cinese con gli Stati Uniti a febbraio 2019 (14,7 miliardi di dollari contro i 29,2 di febbraio 2018). Per cui sul dato relativo alle importazioni molto peseranno le prossime scelte del governo in materia di commercio estero.

Stati Uniti e Made in Italy

Le relazioni commerciali tra Stati Uniti e Italia sono sempre state solide per diversi motivi, ma soprattutto per l’ottima considerazione di cui il Made in Italy gode tra i consumatori americani per ciò che concerne qualità, affidabilità, know-how e design. Il Belpaese nel 2018 si è classificato al 9° posto tra i principali Paesi fornitori degli Stati Uniti con una quota sulle importazioni globali pari all’1,9%.

Secondo i dati dello US Census of Bureau nel 2018 l’Italia ha infatti esportato verso gli Stati Uniti 54,8 miliardi di dollari con una crescita del 9,6% rispetto al 2017. Di contro le importazioni dagli States hanno raggiunto quota 23,2 miliardi di dollari (+25,5% rispetto al 2017) facendo registrare un surplus positivo a favore del Belpaese pari a 31,6 miliardi di dollari e sostanzialmente invariato rispetto all’anno precedente.

Le stime di SACE per il triennio 2019-2021 prevedono una crescita media delle esportazioni tricolore intorno al 5% annuo, mentre tra i settori di punta delle vendite Made in Italy negli USA si conferma al primo posto la meccanica strumentale (21%), seguita da mezzi di trasporto (20%), chimica (13%), tessile e abbigliamento (7%), alimentari e bevande (7%).

Per il futuro ovviamente molto dipenderà dalla conclusione dei negoziati tra Stati Uniti e Cina prevista nelle prossime settimane: un’ulteriore ondata di dazi in caso di mancato accordo potrebbe ripercuotersi su prezzi e consumi, determinando una spirale negativa che coinvolgerebbe senza ombra di dubbio anche il Belpaese. E proprio in questi giorni si sta riunendo la Fed per decidere le prossime mosse, il timore è che ci sarà un ulteriore aumento dei tassi che potrebbe limitare azioni di politica economica espansiva da parte del governo centrale. Ad oggi le stime sui principali indicatori macroeconomici sono comunque positive anche se l’obiettivo di Trump, almeno nel breve periodo, rimane quello di uscire vincitore dalla “guerra dei dazi”, uno degli argomenti principali su cui si giocherà la rielezione nel 2020.

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Fonte: a cura di Exportiamo, di Anthony Pascarella, redazione@exportiamo.it

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