Negli ultimi giorni Italia e Cina hanno intensificato i contatti per la firma di un memorandum d’intesa (MoU) sulla partecipazione del Belpaese alla Belt and Road Initiative (Bri), il colossale piano infrastrutturale lanciato da Xi Jingping nel 2013. Scopriamo insieme le opportunità e le minacce per il nostro sistema Paese.
“Il negoziato non è ancora completato, ma è possibile sia concluso in tempo per la visita di Xi Jinping in Italia. Vogliamo assicurarci che i prodotti del Made in Italy possano avere più successo in termini di volumi di export verso la Cina, che è il mercato a crescita più veloce al mondo“. Con queste parole Michele Geraci, sottosegretario italiano allo Sviluppo Economico, ha confermato le recenti indiscrezioni che parlano di un forte avvicinamento fra Roma e Pechino, prossime a firmare un accordo che, seppur non preveda (per il momento) alcun vincolo, ha già prodotto reazioni contrariate sia da Washington che da Bruxelles.
Gli States, ad esempio, serbano più di un dubbio sul fatto che l’appoggio del governo italiano alla Bri “possa portare a benefici economici duraturi al popolo italiano” a tal punto che un’eventuale adesione di Roma al progetto potrebbe addirittura “finire per danneggiare la reputazione globale dell’Italia nel lungo periodo“. In una fase di forte attrito con Pechino e con le rispettive diplomazie economiche al lavoro per trovare un punto d’incontro sullo scottante tema dei dazi, gli Usa attraverso le dichiarazioni di Garrett Marquis, portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, si sono dunque schierati inequivocabilmente contro l’avvicinamento di Roma al gigante asiatico che, a sua volta, non ha tardato a ribattere. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Lu Kang ha infatti replicato a Marquis con toni sibillini: “Storicamente, l’Italia è stata una fermata della Via della seta. Diamo quindi il benvenuto all’Italia e ad altri Paesi europei che prendono parte attiva alla Belt and Road Initiative. Come grande Paese e grande economia, l’Italia sa dove si trova il suo interesse e può fare politiche indipendenti“.
A dire il vero però, fra i circa 80 Paesi che hanno già espresso la loro approvazione nei confronti della Bri, si contano pochissimi stati del Vecchio Continente (Portogallo, Ungheria, Polonia e Grecia) a testimonianza di quanto il progetto cinese sia visto con una certa diffidenza anche a Bruxelles e dintorni. C’è in effetti la diffusa preoccupazione che esso costituisca una sorta di cavallo di Troia per instaurare una dipendenza economica da Pechino, specialmente per quel che riguarda le economie europee più deboli. L’Italia quindi, il 22 marzo prossimo (giorno in cui dovrebbe svolgersi la visita del premier cinese Xi in Italia) potrebbe diventare il primo Paese del G7 e il primo Paese fondatore dell’Ue ad aderire al progetto di creazione di una “Nuova Via della Seta”. Dopo un primo approccio portato avanti con il governo Gentiloni si è verificata una forte accelerazione nelle trattative specialmente su indicazione dell’attuale ministro dello Sviluppo Economico Luigi di Maio.
Tuttavia mentre con il precedente esecutivo sembrava si volesse porre molta attenzione su uno screening degli investimenti cinesi nell’Ue, proprio per evitare che il progetto finisse per diventare uno strumento utilizzato da Pechino per assicurarsi un certo peso sull’economia globale – legando a sé molti Paesi attraverso la concessione di prestiti, finanziamenti e controllo di infrastrutture commerciali strategiche – oggi tali timori sembrano essere messi in secondo piano dal governo giallo-verde.
Il tutto mentre Bruxelles continua a chiedere coerenza ai propri Paesi membri affermando, tramite un portavoce della Commissione Europea che “tutti gli Stati membri, individualmente e nell’ambito dei quadri di cooperazione subregionali come il formato 16+1, hanno la responsabilità di garantire la coerenza con le norme e le politiche del diritto dell’Ue e di rispettare l’unità dell’Unione Europea nell’attuazione delle politiche Ue”.
Una coerenza che non sembra fra le assolute priorità del governo Conte che invece pare guardare al progetto più come una opportunità che come una minaccia considerandolo come un’occasione da non perdere non solo per intensificare gli scambi commerciali con la Cina, ottavo mercato di destinazione dell’export italiano, ma anche per attrarre consistenti investimenti che possano contribuire al rilancio della malconcia economia della Penisola.
Tuttavia non si può trascurare il fatto che la creazione di un grande spazio economico euroasiatico porta con sé una serie di criticità anche perché mobiliterà ingentissime risorse economiche, stimate dall’Ufficio Nazionale di Statistica di Pechino in ben 1700 miliardi di dollari implementando delle forme di partnership miste pubblico-privato.
Oggi comunque è ancora difficile esprimersi in maniera univoca sull’adesione del Belpaese al progetto ma sarebbe utile fare adottare un approccio pragmatico per realizzare una valutazione corretta. Un buon inizio sarebbe quello di favorire: la diffusione informativa dei bandi di gara promossi per i progetti Bri, la creazione di prodotti finanziari finalizzati al sostegno di iniziative Italia-Cina e la formazione di prodotti assicurativi specifici per l’export e l’internazionalizzazione verso la Cina.
Una serie di misure concrete che possano quindi, oltre che supportare l’implementazione della Bri, anche agevolare le relazioni economiche fra Italia e Cina che nel 2017 si sono scambiate beni e servizi per circa 42 miliardi di euro. Inoltre, nonostante il saldo commerciale fra i due Paesi sia ampiamente a favore di Pechino, le prospettive per l’export italiano in Cina appaiono ottime con tassi di crescita annui, fino al 2021, non distanti dalla doppia cifra. In più, già ora, i Paesi dell’Area BRI acquistano circa il 27% dell’intero export italiano e si stima che tale cifra sia destinata a crescere del 25% nell’arco dei prossimi quattro anni.
Ciò non significa però che non debba realizzarsi un’attenta analisi dei rischi che il progetto comporta ponderando con attenzione le varie acquisizioni cinesi che stanno entrando (o provando a farlo) con una certa “invadenza” in alcune importanti infrastrutture italiane come i porti di Genova, Venezia e Trieste. Il Belpaese dovrebbe dunque trovare un punto di mediazione fra la tutela dei propri asset strategici, il potenziamento delle relazioni economiche con la Cina e la rassicurazione dei suoi alleati storici. Risultati raggiungibili solo con un’azione politico-diplomatica di elevato livello.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it
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