A partire dal 2007 i fondi sovrani sono emersi come un nuovo soggetto economico, finanziario e politico. Molti sono infatti gli Stati che, in un’ottica di diversificazione degli investimenti, hanno deciso di entrare nelle aziende di altri Paesi, rivolgendo, tra tutti, particolare attenzione alle imprese nordamericane ed europee.

Ormai da diversi anni nel dibattito economico-politico sono entrati, con una certa incisività, dei soggetti nuovi – i fondi sovrani – con caratteristiche e funzioni del tutto peculiari.

Il patrimonio di tali fondi è costituito dalle risorse finanziarie che un determinato governo decide di mantenere separate dal normale processo di allocazione di bilancio e di asset management, e, a seconda delle modalità di accumulazione del patrimonio, si parla di fondi sovrani di tipo commodity e non commodity.

Nella categoria commodity ricadono i fondi finanziati dai proventi derivanti dalle esportazioni di beni energetici (petrolio e gas naturali) o altre materie prime (rame, diamanti e fosfati), molto diffusi in Norvegia, nei Paesi del Medio Oriente, in Africa settentrionale, in Russia e in Nord America a livello subnazionale. I fondi sovrani non commodity traggono, invece, le loro risorse dagli accumuli di riserve monetarie derivanti da surplus commerciali, da introiti delle privatizzazioni e/o da altri proventi fiscali. Tra questi spiccano Temasek Holdings di Singapore e il malese Khazanah Nasional.

Tra le ragioni che spingono i Paesi a creare questi fondi di investimenti si ritrova da un lato la necessità di isolare i conti pubblici dalle fluttuazioni nel prezzo di una risorsa naturale o di una materia prima, in modo da sterilizzare gli introiti in divisa e stabilizzare nel tempo il gettito fiscale. Dall’altro, vengono creati per ridurre il costo opportunità di mantenere immobilizzate riserve in valuta in eccesso e/o per cercare di massimizzare il rendimento degli investimenti.

Data la natura degli obiettivi perseguiti, i fondi sovrani investono tendenzialmente in strumenti illiquidi al fine di ottenere rendimenti maggiori e che abbiano un orizzonte temporale di lungo periodo. Si comportano, dunque, come gli altri maggiori investitori istituzionali: investono in aziende grandi, in difficoltà finanziarie e con recenti magre performance sui listini azionari, svolgendo, in molti casi, un ruolo attivo nelle aziende in cui investono, accanto al management anche in veste di amministratori.

Secondo i dati del Sovereign Wealth Fund Institute (Swfi), i fondi sovrani hanno in gestione asset per 7,4 mila miliardi di dollari. Norvegia, Arabia Saudita, Kuwait, sono i Paesi che detengono nei loro portafogli la quota maggiore del totale degli asset a livello mondiale, pari a 4,2 mila miliardi di dollari. Si segnalano, inoltre, tra i fondi maggiormente attivi, il Government Investment Corporation di Singapore e la China Investment Corporation.

Come già anticipato, i Paesi nordamericani ed europei sono diventati sempre più i principali destinatari degli investimenti dei fondi sovrani ed in tal senso la domanda cui rispondere è molto semplice: perché? Una possibile spiegazione è che i mercati dei capitali europei e nordamericani offrono tradizionalmente la più ampia selezione di investimenti e un alto livello di liquidità, e sono quindi in grado di assorbire i grandi volumi che i fondi cercano sistematicamente di allocare.

A livello europeo il Paese che ha attirato più capitali dal 2010 al 2018 è il Regno Unito con 118 miliardi di dollari, seguito da Francia (34), Svizzera (24), Germania (22), Irlanda (19), Spagna (18), Italia (12) e Svezia (6).

Come si evince dai dati del Sovereign Wealth Fund Institute, gli investimenti pervenuti in Italia valgono solo il 5% del totale europeo, contro un prodotto interno lordo che pesa l’11% sul Pil dell’Unione Europea. Secondo Bernardo Bertolotti, professore di Economia politica all’Università di Torino e direttore del Sovereign Investment Lab Bocconi, si evince chiaramente come i Paesi titolari dei fondi stiano sottovalutando il peso l’Italia. Lo conferma il dato del 2018 che alla voce “soldi investiti nelle imprese italiane” vede emergere un malinconico zero. Viene dunque da domandarsi quale sia la ragione di tale sfiducia da parte degli investitori, anche se secondo il professor Bertolotti esiste una spiegazione molto lineare: “Alla scarsa attrattività strutturale del Paese per i fondi che cercano grandi imprese e grandi operazioni si è aggiunto il rischio congiunturale. L’Italia è un Paese che scotta”.

Eppure nel 2017 c’erano state tre importanti operazioni fra cui i 106 milioni di dollari investiti dal fondo dell’Azerbaijan Sofaz per il Palazzo Turati di Milano, l’ingresso del Bahrein in F2i-Kos e l’acquisizione da parte del fondo Temasek del 30% di Stone Island, nel settore abbigliamento.

Andando a ritroso nel tempo, nella classifica delle maggiori operazioni d’investimento realizzate nel Belpaese spicca il Qatar dell’emiro Tamim bin Hamad al-Thani che, con 4,6 miliardi investiti, ha coperto più di un terzo dell’intero importo impegnato da tutti i fondi sovrani negli ultimi otto anni.

In conclusione, come si può facilmente capire, stiamo parlando di ingenti risorse economiche fondamentali per la crescita delle imprese italiane e per lo sviluppo delle infrastrutture nazionali. Per questo rinunciarvi non può e non deve essere un’opzione ed anzi, è assolutamente necessario che le istituzioni agiscano di concerto per incrementare l’appeal italiano agli occhi dei fondi sovrani. L’auspicio, dunque, è che quella del 2018 sia stata solo un battuta di arresto e che presto i capitali stranieri torneranno a rimpinguare le casse delle imprese tricolore.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Francesca Simonelli, redazione@exportiamo.it

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