Come confermato da Sace e Simest l’economia mondiale non attraversa un bel periodo ed anche per questo si moltiplicano i pericoli che potrebbero incidere negativamente sui piani di investitori ed aziende esportatrici italiane. Scopriamo quindi insieme quali sono le principali variabili da tenere sotto controllo nel 2019.
La scorsa settimana Sace e Simest hanno pubblicato la mappa dei rischi 2019 evidenziando i 6 “pericoli” che, se sottovalutati, potrebbero danneggiare investimenti ed export Made in Italy nel mondo. Il bilancio del 2018 è stato positivo grazie ad una crescita globale che si è mantenuta su ritmi elevati nonostante le tensioni di natura finanziaria, valutaria e geopolitica che hanno visto come protagonisti alcuni Paesi emergenti tra cui Turchia ed Argentina. Tuttavia anche le economie avanzate stanno fronteggiando alcune criticità. Tra queste spiccano la Brexit ed il generale rallentamento economico di Unione Europea e Stati Uniti, senza tralasciare le recenti tensioni commerciali tra Washington e Pechino.
Inoltre l’indebitamento globale ha raggiunto 244mila miliardi nel terzo trimestre del 2018, in aumento del 2,5% rispetto allo stesso riferimento cronologico del 2017 e, sotto questo aspetto, il prossimo futuro è in gran parte legato alle politiche monetarie che la Fed metterà in campo.
Secondo lo studio la Cina si conferma tra i migliori mercati in termini di rischio-opportunità, così come gli Stati Uniti che, al di là dell’atteso rallentamento, continueranno ad essere un target dalle potenzialità elevate. Nuove opportunità potrebbero aprirsi in mercati popolosi come Brasile, India, Indonesia e Vietnam, mentre Marocco, Kenya e Senegal potrebbero essere le sorprese del continente africano.
I rischi per l’economia mondiale
I primi tre pericoli analizzati da Sace e Simest riguardano l’economia ed in particolare:
• Turbolenze nei Paesi emergenti: rispetto al passato le “economie emergenti” sembrano più preparate ad affrontare eventuali shock. Il deflusso di capitali da questi Paesi, innescato dai rialzi della Fed, ha tuttavia costretto alcuni governi ad aumentare considerevolmente i tassi di interesse. Ciò ha ridotto i margini delle banche, producendo una contrazione del credito concesso alle imprese che, a loro volta, hanno dovuto ridimensionare i piani di investimento, con effetti recessivi sull’economia. Altro aspetto fondamentale è stato il deprezzamento delle valute delle economie emergenti: basti pensare che la lira turca ha perso oltre il 40% del proprio valore rispetto al dollaro, mentre il peso argentino addirittura oltre il 50%, con un’inevitabile incidenza negativa sulle importazioni. Secondo SACE, in caso di scenario negativo, caratterizzato da un ulteriore deflusso di capitali, potrebbero esserci effetti nefasti su altri Paesi emergenti “fragili” anche se, in tal senso, si prevede che la Fed applicherà una politica monetaria meno restrittiva.
• Economia USA: in questo caso la preoccupazione maggiore è che gli Stati Uniti entrino in recessione, mettendo la parola fine ad un ciclo espansivo iniziato a giugno 2009. Nell’anno appena trascorso l’economia a stelle e strisce ha fatto segnare numeri importanti: crescita media del PIL attorno al 3%, aumento del reddito pro-capite del 5%, inflazione contenuta e disoccupazione ai minimi storici. Le principali preoccupazioni degli economisti riguardano innanzitutto l’esito dello scontro commerciale con la Cina, le tensioni politiche interne tra Democratici e Repubblicani, il rialzo dei tassi della Fed e la sostenibilità economica nel medio-lungo periodo del Tax Cuts and Jobs Act introdotto da Trump. Comunque le previsioni del Fondo Monetario Internazionale allontanano lo spettro della recessione seppure potrebbe verificarsi un rallentamento della crescita del PIL americano che, nel prossimo biennio, dovrebbe attestarsi in una forbice compresa tra il 2,5 e l’1,80%.
• Protezionismo: La politica dell’America first del governo Trump ha certamente rivoluzionato i rapporti commerciali tra Stati Uniti, Cina ed Europa. Messo definitivamente in cantina il progetto TTIP, il 2018 è stato l’anno di una politica protezionista marcatamente aggressiva da parte del tycoon. Molto dipenderà dall’esito delle trattative tra Washington e Pechino: in caso di scenario negativo Trump ha promesso dazi su 256 miliardi di dollari di beni cinesi, con una probabile ritorsione da parte di Xi Jinping. In questo caso l’esito resta molto incerto, ma la sensazione è che, rispetto allo scorso anno, ci siano più margini per un accordo positivo entro fine marzo.
I rischi per la finanza
Per ciò che concerne la finanza i rischi sono principalmente:
• Crollo del mercato azionario Usa: il 2018 è stato un anno negativo per il mercato azionario statunitense con l’indice S&P 500 che ha perso circa il 7%, soprattutto nell’ultimo trimestre dell’anno dove ha ceduto oltre il 15%. Secondo SACE il sell-off osservato negli Stati Uniti ha rappresentato una correzione del mercato piuttosto che l’inizio di un crollo su vasta scala, con l’allocazione del risparmio che è passato dall’azionario all’obbligazionario. Su questo ha certamente influito il conflitto commerciale in atto tra Stati Uniti e Cina. Il worst case scenario è il crollo della borsa causato da una eventuale recessione americana o da scelte eccessivamente restrittive della Fed.
• Indebitamento: L’apprezzamento del dollaro e le condizioni finanziarie restrittive non solo hanno avuto effetti sui flussi di capitali, ma hanno determinato un aumento dell’indebitamento (principalmente in dollari) delle geografie emergenti, fattore che ha esposto questi Paesi al rischio di costi di rifinanziamento sempre più esosi. Dal punto di vista dell’esportatore questo può portare ad un maggiore rischio di credito, mentre per un investitore un eventuale shock potrebbe tradursi nell’impossibilità di convertire i propri profitti in valuta locale e rimpatriarli.
I rischi politici
Il principale rischio politico individuato da SACE è quello di una Brexit “disordinata”, visti anche i recenti avvenimenti che stanno mettendo in evidenza le difficoltà nel trovare un accordo. Infatti il voto negativo della Camera dei Comuni del 15 gennaio scorso aumenta le probabilità del “no deal”, ma non è da escludere una decisa inversione di rotta ed addirittura un piano alternativo (tra cui un nuovo referendum). Secondo la Bank of England in caso di un mancato accordo il Regno Unito potrebbe perdere fino al 10,5% del PIL nel prossimo quinquennio, mentre tra i Paesi partner più colpiti ci sarebbero Irlanda, Slovacchia, Belgio e Germania con l’Italia che potrebbe perdere l’1,65% del proprio export verso Londra. Altri rischi politici da tenere sotto controllo riguardano Venezuela, Argentina (elezioni il 27 ottobre), Turchia, Russia e l’impatto del neoeletto Bolsonaro in Brasile.
Sebbene si tratti di una panoramica generale è importante sottolineare che in un mondo in continua evoluzione non bisogna trarre conclusioni affrettate: difatti alcuni settori possono muoversi in controtendenza rispetto alla media. Sicuramente diversificare i mercati di sbocco significa, per investitori e PMI esportatrici, allocare il rischio su più Paesi e di conseguenza essere meno esposti ad uno shock di una determinata area geografica.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Anthony Pascarella, redazione@exportiamo.it
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