Pratiche sleali nella filiera agricola: in arrivo la direttiva Ue

Pratiche sleali nella filiera agricola: in arrivo la direttiva Ue

21 Novembre 2018 Categoria: Marketing Internazionale

Il Parlamento europeo ha dato il via libera per iniziare i negoziati con il Consiglio dei ministri e la Commissione Ue al fine di raggiungere un accordo sulla proposta di direttiva che mira a introdurre un livello minimo di tutela in materia di pratiche commerciali sleali in tutti gli Stati membri.

L’assemblea plenaria del Parlamento Europeo ha approvato con 428 voti a favore, 170 contrari e 17 astenuti, una proposta di direttiva che intende migliorare il funzionamento della filiera alimentare e proteggere gli agricoltori sul mercato vietando pratiche commerciali ritenute sleali. Inizia dunque ora la fase dei negoziati inter-istituzionali con il Consiglio dei ministri e la Commissione Ue, per arrivare al traguardo dell’approvazione definitiva della nuove regole, in base alle previsioni, prima delle elezioni dell’Europarlamento a maggio.

Si tratta di un significativo passo in avanti verso un sistema di regole e procedure in grado di garantire una catena di approvvigionamento alimentare più equa, più trasparente e più sostenibile in tutta Europa. L’obiettivo è predisporre gli strumenti giuridici necessari a riequilibrare i rapporti contrattuali nella catena alimentare, rafforzando il ruolo degli agricoltori e PMI, l’anello più debole.

Secondo un recente sondaggio riportato dalla Commissione europea, condotto presso i produttori agricoli e le cooperative agricole, il danno stimato causato dalle pratiche commerciali sleali ammonta a oltre 10 miliardi di euro l’anno. Inoltre, produttori di prodotti alimentari hanno riferito che i costi legati alle pratiche commerciali sleali costituiscono lo 0,5% del loro fatturato.

A giudizio della Commissione europea, a causa del loro scarso potere contrattuale rispetto ai grandi operatori della filiera (ad. es catene commerciali e grande distribuzione), gli operatori più piccoli sono particolarmente vulnerabili, in particolare perché le alternative di cui dispongono per far giungere i loro prodotti ai consumatori sono limitate.

Sempre secondo la Commissione europea, le pratiche commerciali sleali possono esercitare pressione sui profitti e i margini degli operatori, portando ad una distribuzione inefficiente delle risorse e persino all’uscita dal mercato di operatori altrimenti sani e competitivi.
A titolo di esempio:

• riduzioni unilaterali con effetto retroattivo del quantitativo contrattuale di merci deperibili comportano il mancato guadagno di un operatore che non potrà trovare facilmente uno sbocco alternativo per tali merci;
• i ritardi di pagamento dei prodotti deperibili dopo che sono stati consegnati e venduti dall’acquirente costituiscono un costo finanziario supplementare per il fornitore;
• gli eventuali obblighi dei fornitori di riprendere i prodotti non venduti dall’acquirente possono costituire invece un indebito trasferimento del rischio sui fornitori con ripercussioni sulla sicurezza della programmazione e degli investimenti;
• infine, l’obbligo di contribuire ad attività promozionali generiche all’interno dei punti di vendita dei distributori senza trarne un beneficio adeguato può ridurre indebitamente il margine dei fornitori.

Fino ad ora, le pratiche commerciali sleali sono state considerate solo nella fase ultima della filiera, per la tutela del consumatore finale con la Direttiva 2005/29/CE, recepita in Italia con i d.lgs. 145/07 e d.lgs. 146/07 (Codice del Consumo). Sono stati invece trascurati i problemi causati dal grave squilibrio di potere contrattuale tra la filiera di produzione – nel settore alimentare frammentata in una pletora di micro-imprese – e quella distributiva.

A livello dell’Unione non esiste, infatti, una legislazione volta a contrastare le pratiche commerciali sleali nella filiera alimentare tra imprese. La direttiva 2011/7/UE sui ritardi di pagamento, pur stabilendo che le imprese devono pagare le fatture entro un massimo di 60 giorni, se non diversamente concordato nel contratto, a condizione, tuttavia, che tale proroga non sia gravemente iniqua per il creditore, non impone un termine massimo di pagamento vincolante nelle operazioni commerciali tra imprese.

A livello nazionale, invece, la situazione si presenta molto variegata: la maggior parte degli Stati membri ha affrontato il problema delle pratiche commerciali sleali adottando approcci diversi, per lo più di tipo normativo, mentre alcuni hanno fatto ricorso a iniziative di autoregolamentazione tra gli operatori di mercato. Disomogeneità che crea condizioni di concorrenza differenti per gli operatori alla quale si aggiunge uno scarso coordinamento tra le autorità di contrasto degli Stati membri. In Italia, un passo avanti sembrava essere stato fatto con l’art. 62 del DL n. 1/2012 ma l’affidamento esclusivo dell’applicazione della citata normativa alle sole cure dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (Antitrust) ne ha di fatto escluso la concreta efficacia.

A questo vulnus normativo intende rimediare la nuova direttiva con l’introduzione di un livello minimo di tutela comune a tutta l’UE. Si prevede un elenco di pratiche commerciali sleali vietate in quanto manifestamente abusive, quali, ad es., i pagamenti tardivi, la cancellazione ‘last-minute’ degli ordini, le modifiche unilaterali e/o retroattive ai contratti, il riaddebito degli sprechi al fornitore. Si predispone, altresì, un elenco di pratiche che saranno autorizzate solo se concordate in termini chiari e univoci al momento della conclusione dell’accordo di fornitura.

Inoltre, si impone agli Stati membri di designare un’autorità pubblica responsabile di garantire l’applicazione delle nuove norme e di avviare indagini autonomamente o sulla base di denunce, anche anonime, e, in caso di accertata violazione, di imporre sanzioni proporzionate e dissuasive.

Non rimane, dunque, che attendere la conclusione dell’iter legislativo che porterà alla versione definitiva del testo normativo, con la precisazione che le regole cogenti a livello UE integreranno quelle vigenti negli Stati membri, così come il codice di condotta teoricamente già applicato su base volontaria (Supply Chain Initiative). Gli Stati membri avranno comunque la possibilità di mantenere o di introdurre norme più severe di quelle previste a livello europeo.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Antonella Brandonisio, Avvocato RBM Studio Legale Associato, redazione@exportiamo.it

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