Analisti e commentatori si interrogano sull’atteggiamento del governo Lega-M5S in tema di accordi commerciali: dall’entusiasmo per il patto con il Giappone allo stop al trattato con il Canada (fra l’altro già in vigore). Scopriamo insieme le ragioni di quest’atteggiamento piuttosto contraddittorio.

Basterà iniziare a dire qualche no ai tavoli europei e internazionali, come abbiamo cominciato a fare: il Ceta va rivisto per non abbassare il prezzo di grano e carne italiani. Ce lo siamo detti per anni come forza di opposizione ed ora dobbiamo dettare le regole”.

Le parole recentemente pronunciate dal Ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, non lasciano spazio a dubbio alcuno: è infatti da tempo che il M5S si è apertamente schierato contro alcuni trattati di libero scambio che – a detta dei pentastellati – danneggiano il Made in Italy non tutelandone adeguatamente le eccellenze ed aprendo il mercato del Belpaese ad una moltitudine di prodotti poco sicuri e di discutibile livello qualitativo.

Un atteggiamento coerente con quanto scritto nel contratto del “Governo del cambiamento” in cui si legge: “Per quanto concerne Ceta, MESChina, TTIP e trattati di medesima ispirazione ci opporremo agli aspetti che comportano un eccessivo affievolimento della tutela dei diritti dei cittadini, oltre a una lesione della corretta e sostenibile concorrenza sul mercato interno”.

Ceta vs Jefta

Ma allora perché lo scorso 17 luglio lo stesso segretario del M5S ha firmato l’accordo con il Giappone senza colpo ferire?

A questo quesito i dirigenti a cinque stelle rispondono che l’impatto del Jefta è più limitato rispetto a quello del Ceta, specialmente in campo agricolo: il Giappone in effetti esporta limitate quantità di cibo nel Vecchio Continente mentre il Canada già esporta, ad esempio, enormi stock di grano e, più in generale, possiede produzioni molto più simili a quelle italiane.

Alla base di questo ragionamento  ci sarebbe quindi la volontà di salvaguardare le produzioni italiane dalla concorrenza straniera garantendo contemporaneamente anche i consumatori italiani. Il Giappone, infatti, pur producendo moltissimi Ogm, non li esporta in Europa, mentre Ottawa, in questi anni, ha fatto arrivare in Ue numerosi prodotti agricoli Ogm e carne d’allevamento trattata con ormoni.

Le obiezioni al ragionamento grillino però sono almeno tre:

il Belpaese già compra dal Canada – a prescindere dal Ceta – significative quantità di cibo pari a quasi 380 milioni di euro fra prodotti dell’agricoltura, pesca, silvicoltura e prodotti alimentari (dati 2017 Agenzia Ice di fonte Istat);
il Ceta introduce la tutela di 41 prodotti tipici italiani (Ig), dai vini ai prosciutti fino ai formaggi, che rappresentano oltre il 90% del nostro export verso l’America del Nord;
l’accordo impone al Canada il rispetto dei severi standard qualitativi Ue per poter esportare nel Vecchio Continente.

Fondamentalmente quindi i timori del “Governo del cambiamento” sembrano non poggiare su solide fondamenta perché con il Ceta le produzioni europee otterrebbero un’ottima tutela con ben 143 indicazioni geografiche (Ig) europee protette in Canada contro le zero Ig canadesi protette in Europa. E fra l’altro l’Italia sarebbe il Paese più protetto in assoluto (!) con 41 Ig protette.

Ma allora quale è il nocciolo del problema?

Secondo alcuni la parte del Ceta davvero indigeribile per Palazzo Chigi sarebbe l’introduzione dell’Isds ovvero un meccanismo di risoluzione delle controversie che permetterebbe agli investitori stranieri (in particolare le multinazionali) di citare in giudizio un esecutivo europeo laddove ritenga che alcune leggi approvate possano danneggiare i propri interessi. Il meccanismo però prevede la semplice istituzione di un tribunale pubblico permanente seguendo le ben rodate regole già utilizzate dal Wto in caso di controversie. Inoltre le imprese avranno limitate possibilità di citare in giudizio un governo e solo nei casi in cui vengano disattese le disposizioni del Ceta o nel caso in cui sia ravvisata una discriminazione dell’impresa in base alla sua nazionalità. Infine l’onere della prova rimane a carico dell’impresa a cui non sarà consentito mettere in discussione norme legittime adottate dai governi nell’interesse generale. Anche in questo caso dunque il trattato non sembra conferire ad imprese o multinazionali alcun potere spropositato a scapito dei governi nazionali e dunque dei cittadini.

Conseguenze di una mancata ratifica

Se il parlamento italiano dovesse decidere di non ratificare il Ceta (applicato in via provvisoria e solo parzialmente dal 21 settembre 2017) l’accordo salterebbe in toto perché, per la ratifica finale, ci deve essere l’ok da parte dei 28 stati europei contraenti. Tale eventualità – fra l’altro – spingerebbe (con buona probabilità) la Commissione a non coinvolgere più, nel prossimo futuro, i governi nazionali nella firma dei trattati commerciali. E ciò non potrebbe far piacere al governo giallo-verde che non nasconde le sue mire “sovraniste” e vorrebbe recuperare un certo margine di decisionalità in Europa.

Il Belpaese fra l’altro intrattiene delle solide relazioni commerciali con Ottawa e nel 2017 ha esportato (dati dell’Osservatorio economico del Mise) beni per quasi 4 miliardi di euro in Canada, a fronte di un import di poco superiore al miliardo e mezzo. Si rileva poi che i dati sull’interscambio Italia-Canada diffusi dal governo canadese sono ancora superiori rispetto a quelli sopracitati.

Inoltre in questi primi nove mesi d’applicazione provvisoria l’export italiano in Canada è aumentato dell’8%, secondo statistiche canadesi annunciate in sede europea: sarà solo un caso?

Cosa accadrà?

Mentre la Lega appare più prudente e sembra voler prendere tempo per prendere una decisione definitiva come si evince dalle dichiarazioni del ministro dell’Agricoltura Centinaio (“Abbiamo tempo ancora due anni per cui è necessario approfondire di più l’opportunità di ratificarlo o no”), il M5S spinge sull’acceleratore ed è arrivato a sostenere, per bocca del titolare del Mise Di Maio, che il Ceta “rappresenta un cavallo di Troia per distruggere il Made in Italy” e che “se anche uno solo dei funzionari italiani all’estero continuerà a difendere trattati come il Ceta sarà rimosso”.

In definitiva sebbene l’esito della vicenda non appaia ancora scontato sarebbe bene riflettere profondamente sui numerosi vantaggi che l’adozione del Ceta potrebbe comportare per il Made in Italy, tentando semmai di correggere alcune parti dell’accordo attraverso modifiche parziali (sempre integrabili con il passare del tempo) ma evitando di far saltare l’intero schema.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it

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