Il neo-governo italiano annuncia il no alla ratifica del CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), il trattato di libero scambio tra UE e Canada entrato in vigore lo scorso settembre in via provvisoria. Un annuncio cui plaude un fronte trasversale di contrari alla firma, che penalizzerebbe la qualità del Made in Italy agro-alimentare. Ma ne siamo proprio certi?

Il “No al CETA” è stato un impegno assunto da circa i due terzi dei candidati alle scorse elezioni politiche con la Campagna “No Ceta, non tratto”, promossa dalla Campagna Stop Ttip Italia insieme a organizzazioni tra cui Coldiretti, Cgil, Legambiente, Greenpeace, Slow Food, e un ampio schieramento di associazioni di consumatori. Impegno che, essendo ormai insediati il nuovo parlamento e il nuovo governo, queste stesse organizzazioni chiedono venga mantenuto.

Sarà forse proprio la pressione derivante dalla volontà di non deludere l’elettorato a far perdere più di una diottria al nuovo esecutivo? Eh sì, perché bisogna essere davvero tanto miopi per non riuscire a vedere i vantaggi che potrebbero derivare dalla ratifica del trattato.

Ma procediamo con ordine, nel tentativo di fare chiarezza su una questione in cui, la circolazione di bufale e false notizie ha finito solo per alimentare paure infondate e falsi miti.

Con il Ceta mettiamo a rischio i nostri prodotti tipici?

È questo il pomo della discordia, vero o presunto che sia. “Vogliamo difendere la qualità dei nostri prodotti Made in Italy e vogliamo far di tutto per contrastare l’italian sounding” e quindi “non ratificheremo il trattato di libero scambio con il Canada perché tutela solo una piccola parte dei nostri prodotti Dop e Igp”, ha dichiarato il ministro leghista delle Politiche agricole, Gian Marco Centinaio in un’intervista riasciata qualche giorno fa a La Stampa.

La motivazione offerta dal ministro è in realtà piuttosto debole, se non addirittura smentita dalla realtà. Grazie al Ceta, infatti, per la prima volta il Canada ha accettato il riconoscimento di 143 Igp europee, di cui 41 italiane. Il fronte “No CETA” ha puntato il dito sul fatto che l’accordo non tutelerebbe le restanti 250 Igp italiane. Non spiegano però, i promotori della protesta, che, prima del CETA, nessuna delle 291 igp italiane, le 41 ora incluse nell’accordo e le 250 che restano fuori, era tutelata. È vero dunque che che molti prodotti tipici italiani restano eclusi, ma il loro peso è minimo: le Dop e Igp incluse nella lista del Ceta fanno più del 90% dell’export italiano globale di prodotti tipici alimentari, che secondo l’ultimo rapporto Ismea-Qualivita vale complessivamente 3,4 miliardi di euro. 

Grazie al CETA si superano anche alcuni casi paradossali, come quello del Prosciutto di Parma, che prima del Ceta era costretto a presentarsi in Canada come “the original Prosciutto” perché chiamandolo Prosciutto di Parma i salumifici emiliani violavano il marchio “Parma Ham” registrato dalla multinazionale Maple Leaf, che lo utilizza per un prosciutto tutto canadese.

Insomma, il CETA è un notevole passo in avanti per promuovere e tutelare la tipicità italiana e per contrastare l’“Italian sounding”, non per incentivarlo come sostenuto dai detrattori dell’accordo.

Saremo invasi dal grano canadese?

In realtà non sono le aziende dei prodotti di origine protetta a contrastare il Ceta, ma la maggioranza delle associazioni degli agricoltori. Non sorprende dunque l’esultanza del presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo secondo cui “la decisione di non ratificare il Ceta è una scelta giusta di fronte a un accordo sbagliato e pericoloso per l’Italia” che “legittima la pirateria alimentare a danno dei prodotti Made in Italy“.

Gli agricoltori temono, in particolare, la concorrenza del Canada nel settore del grano, prodotto di cui il Paese americano è un grande esportatore, tanto che si è cominciato a parlare di “invasione del grano canadese”, e per giunta nocivo perchè contiene il glifosato, un pesticida vietato nelle coltivazioni europee ma di cui è concessa l’importazione (non solo dal Canada). I primi numeri dell’applicazione provvisoria del Ceta, diffusi a fine aprile dall’ufficio ICE canadese e basati sui dati ufficiali riportati da Statistics Canada, dicono però che semplicemente questa inondazione di frumento non esiste. Anzi, è proseguita la caduta delle importazioni di grano canadese in Italia, che nell’arco di tre anni si sono dimezzate, scendendo, in valore, da 446 a 173 milioni di dollari canadesi tra il 2015 e il 2017.

Parallelamente, le esportazioni agroalimentari italiane in Canada sono aumentate del 15%, raggiungendo i 581,6 miliardi di dollari canadesi, con un aumento in valore del 18% per la frutta, del 19% per i formaggi, del 52% per il prosciutto crudo e dell’11% per il vino.

In generale, poi, la Commissione Europea ha fatto notare come da settembre, e cioè da quando il Ceta è entrato in vigore in via provvisoria, le esportazioni dall’Italia al Canada sono aumentate dell’8%, numeri che hanno indotto la commissaria UE per il commercio, Cecilia Malmström, a concludere che “l’accordo Ceta sarebbe positivo per l’Italia”.

Mangeremo carne agli ormoni e mais OGM?

Fiumi di parole si sono sparsi anche sul fatto che il CETA ritoccherebbe al ribasso gli standard qualitativi dei prodotti alimentari, portando sulle nostre tavole, oltre al grano al glifosato, bistecche agli ormoni e ortaggi OGM in quantità. La verità è che l’accordo non cambierà nulla in Europa in termini di sicurezza sanitaria e fitosanitaria, semplicemente perché la UE permette l’accesso solo a “i prodotti e i servizi pienamente conformi alla regolamentazione comunitaria”.
I produttori canadesi potranno quindi vendere la loro carne in Europa senza dazi, ma non se contiene ormoni.
Anche sui cibi OGM non ci sarà un grande cambiamento: ci sono già sulle nostre tavole. Se è vero che in Italia non si possono coltivare, è altrettanto vero che si possono sempre comprare quelli prodotti all’estero, in Canada come altrove. Non c’è dunque nessun rischio aggiuntivo derivante dall’accordo.

L’Italia non esporta solo cibo

Nell’intervista de La Stampa precedentemente citata si fa notare al ministro Centinaio che “Il trattato Ceta, però, premia anche le esportazioni dei prodotti industriali….”. La risposta è la seguente: “E noi andiamo avanti lo stesso. Chiederemo al Parlamento di non ratificare quel trattato e gli altri simili al Ceta, del resto è tutto previsto nel contratto di governo. E comunque non si tratta solo di una posizione dei sovranisti della Lega ma i dubbi su questo accordo sono comuni a tanti miei colleghi europei”.

La miopia si fa ancora più pesante. Come si può ignorare infatti che dei quasi 4 miliardi di euro di export italiano in Canada del 2017, contro gli 1,5 miliardi di importazioni, l’alimentare valeva 390 milioni, le bevande 396, mentre i macchinari fanno 818 milioni di export, gli autoveicoli 287 e l’abbigliamento 218? Tutti settori che potrebbero beneficiare dell’abbattimento dei dazi e delle semplificazioni burocratiche previste dal Ceta.

Le sorti delle aziende e dei posti di lavoro italiani non dipendono certamente dal successo dell’intesa raggiunta con il Canada, meta di una fetta piccola (solo lo 0,8%) delle nostre esportazioni. La pulsione sovranista contro il libero scambio e i mercati aperti è però una tendenza pericolosa. Il presente e il futuro dell’economia italiana si basano infatti sull’export. Come ricordava qualche giorno fa il rapporto Sace “Keep calm & Made in Italy”, negli ultimi sette anni l’export è stato l’unico componente in crescita del Pil italiano: senza il contributo delle vendite all’estero, il Pil del 2017 sarebbe stato di 6,4% punti più basso di quello del 2010.

Dovrebbero bastare questi numeri a ricordarci che siamo uno degli ultimi Paesi al mondo a cui potrebbe far bene ingaggiare battaglie protezioniste di ispirazione “Trumpiana”. Semmai “Dobbiamo prendere atto che i mercati sono come paracadute, rendono maggiormente quando sono aperti”, come ha affermato Cecilia Malmström.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Miriam Castelli, redazione@exportiamo.it

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