Secondo il rapporto “Keep calm and Made in Italy” redatto da Sace l’export si conferma una voce essenziale per l’economia italiana, rappresentando circa un terzo del PIL nazionale. Tuttavia non mancano alcuni elementi di criticità (protezionismo, tasso di cambio euro/dollaro, evoluzione delle catene del valore) che è bene valutare con la dovuta attenzione.
Anche nel 2018 le esportazioni italiane proseguono il loro percorso di crescita sebbene il ritmo di tale incremento rallenti sia quest’anno (+5,8%) sia nel triennio 2019-2021 (+4,5%) rispetto all’eccellente andamento fatto registrare nel corso del 2017 (+7,4%).
Se le previsioni di Sace saranno confermate le vendite italiane all’estero di beni e servizi sfioreranno complessivamente i 500 miliardi di euro già nel 2019 e supereranno quota 540 nel 2021, a fronte dei 448 miliardi di euro del 2017.
Nell’arco di soli quattro anni dunque l’export italiano potrebbe crescere di quasi 100 miliardi di euro, una cifra enorme che rende bene l’idea della decisa avanzata del brand Made in Italy sui mercati esteri.
Ma il dato che lascia più sorpresi è certamente quello relativo al contributo che l’export ha fornito alla crescita del Belpaese nel periodo 2010-2017: la voce esportazioni infatti è l’unica positiva negli ultimi sette anni, a fronte di un calo delle altre quattro voci a partire dagli investimenti (-3,1%) seguiti da import (-2,3%), consumi interni (-1%) e spesa pubblica (-0,8%).
In parole povere senza il contributo dell’export il nostro prodotto interno lordo oggi sarebbe inferiore di 6,4 punti percentuali rispetto a quello attuale e ben più lontano dai valori del 2010 che invece sono ora quasi completamente recuperati.
Ma il contesto generale non è tutto rose e fiori soprattutto dall’inizio del 2017 ovvero da quando è iniziato il mandato di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti. Le politiche di protezionismo aggressivo che il tycoon sta mettendo in atto costituiscono in effetti una minaccia concreta per il Made in Italy visto e considerato che gli USA rimangono il terzo mercato di destinazione dell’export italiano con oltre 40 miliardi di euro.
In più Sace ha tenuto a sottolineare un secondo elemento di rischio legato alle nostre esportazioni verso Washington ovvero l’andamento del tasso di cambio fra euro e dollaro (oggi fermo a 1,16) individuando una cosiddetta “soglia del dolore” (1,30) oltre la quale i nostri beni comincerebbero a risentire di un pesante deficit di competitività in termini di prezzo sul mercato a stelle e strisce.
L’ultimo fenomeno da considerare, secondo la società del Gruppo Cassa Depositi e Prestiti, (Cdp) è l’evoluzione delle catene del valore che sta portando alcuni Paesi (fra cui Cina, India e gli stessi States) ad adottare politiche di import substitution ovvero strategie di sviluppo industriale basate sulla sostituzione dei beni di consumo importati con beni di consumo prodotti sul mercato interno.
Detto ciò comunque Sace esibisce un atteggiamento di cauto ottimismo per l’Italia sia perché il “contesto globale continua a mostrare segni di miglioramento” sia per la produttiva attività svolta a livello UE in tema di accordi commerciali.
Nel 2017 è stato infatti siglato il Ceta l’accordo commerciale di libero scambio fra Ue e Canada, un mercato da oltre 36 milioni di consumatori che però oggi rappresenta appena lo 0,9% del totale dell’export italiano. In via di definizione ci sono poi altri due importanti accordi con Giappone e Messico, che dovrebbero aprire le porte di oltre 250 milioni di potenziali consumatori alle Pmi italiane.
Inoltre attendono solo di entrare in vigore gli Economic Partnership Agreement con i Paesi dell’East African Community e dell’Africa occidentale e i Free Trade Agreement con Singapore e Vietnam, geografie che contano oltre 600 milioni di consumatori e che oggi assorbono solamente poco più dell’1% dell’export italiano.
Ma sono davvero moltissimi i fronti su cui l’Ue sta agendo sia ad Est che a Ovest come certificato dalle trattative in corso in tema di accordi di libero scambio che coinvolgono numerosi Paesi Asean come India, Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Thailandia e Paesi Mercosur come Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela (al momento sospeso).
Stiamo parlando di Paesi che riuniscono complessivamente circa 1/3 della popolazione mondiale e che oggi valgono oltre il 7% dell’export italiano.
Il rapporto, come consueto, ha poi anche trattato nel dettaglio l’andamento dell’export italiano nel 2018 e negli anni a venire. Quello che è emerso è che, anche quest’anno, le tre aree nelle quali l’export italiano crescerà più rapidamente (tra il 7 e l’8%) saranno Asia, Europa emergente ed Americhe mentre fra i mercati più grandi si attendono ottime performance da Cina (+12,3%), India (+8,5%), Brasile (+7,3%) Indonesia (+5,8%) e Russia (+5,7%).
Sace ha poi confermato le 15 geografie di opportunità su cui puntare identificate nel Rapporto Export 2017 definite come “irrinunciabili” aggiungendone altre 5 definite come “nuove promesse” vale a dire Colombia, Filippine, Marocco, Senegal e Turchia.
Nella parte finale del rapporto si è poi analizzato quello che è probabilmente il maggiore elemento di freno allo sviluppo del commercio con l’estero dell’Italia vale a dire il gap infrastrutturale del Belpaese rispetto ai principali competitor nei sistemi di trasporto delle merci.
Colmare il gap logistico esistente con la Germania significherebbe infatti recuperare 70 miliardi di euro di export, una cifra considerevole che darebbe un’interessante spinta all’economia italiana. Per riuscirci sarebbe però necessario mettere in piedi un consistente piano d’investimenti mentre, negli ultimi anni, il trend osservato è decisamente opposto (ad esempio solo il 2% degli investimenti totali realizzati nel quinquennio 2013-2017 sono stati assegnati al trasporto marittimo) e secondo Sace “gli investimenti infrastrutturali italiani continueranno a crescere, anche in futuro, meno della media dei Paesi avanzati”.
Anche per quel che riguarda le reti digitali siamo ancora parecchio indietro dal momento che il mercato e-commerce italiano non solo non riesce a tenere il passo di Cina ed Usa ma anche dei Paesi Ue.
In definitiva, quindi, anche in materia di export sono necessari investimenti mirati per ottenere risultati di un certo tipo. Tale dato di fatto non deve però portare a trascurare il fatto che negli ultimi anni il Made in Italy sia riuscito da un lato ad orientarsi verso comparti a più alto valore aggiunto e meno soggetti alla concorrenza di prezzo, e dall’altro ad incrementare la propria percezione di qualità nel mondo. Due traguardi di non poco conto che possono costituire una buona base su cui costruire un’ulteriore espansione dei nostri prodotti sui mercati internazionali, elemento diventato ormai vitale per tutto il sistema Paese.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it
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