Nessuna schiarita all’orizzonte fra Stati Uniti e Cina neanche dopo il vertice della scorsa settimana resosi necessario per cercare di appianare le divergenze che hanno portato ad innalzare barriere all’import-export con l’introduzione di pesanti dazi commerciali.

Pechino e Washington continueranno a parlarsi ma la strada verso un accordo è ancora molto lunga. Ed in salita. Questo è quanto è emerso dai due giorni dedicati al Comprehensive dialogue Usa-China in cui le due superpotenze hanno provato ad instaurare un dialogo per evitare un’escalation delle tariffe doganali che ufficializzerebbe una guerra commerciale dall’esito imprevedibile.

Dunque l’entrata in vigore dei superdazi statunitensi, dopo quella di marzo su acciaio ed alluminio, sembra essere più vicina: se nulla cambierà infatti a giugno 2018 saranno introdotti dazi del 25% sulle importazioni di 1.300 prodotti cinesi per un valore complessivo di 50 miliardi di dollari.

L’incontro fra i negoziatori cinesi ed americani, avvenuto a Pechino, si è dunque rivelato un mezzo fallimento anche per via l’atteggiamento, tutt’altro che conciliante, tenuto dagli statunitensi che si è tradotto in svariate richieste quasi “offensive” avanzate nel corso delle negoziazioni.

La delegazione a stelle e strisce in effetti non è andata troppo per il sottile chiedendo alla Cina una riduzione del surplus commerciale di 200 miliardi di dollari da qui al 2020 da implementarsi attraverso un aumento degli acquisti di beni Made in USA.

Inoltre gli uomini di Trump avrebbero anche chiesto una sensibile riduzione delle tariffe doganali, l’apertura del mercato dei servizi, l’aggiornamento della lista di settori dove gli investimenti stranieri sono vietati. Ma non è finita qui: perché gli USA si sono spinti addirittura a chiedere a Pechino di accettare restrizioni sugli investimenti cinesi sul suolo statunitense e di abbandonare Made in China 2025, ovvero il progetto con cui il Dragone punta diventare una superpotenza tecnologica.

In effetti il piano di sviluppo cinese preoccupa e non poco il presidente americano che vede come una minaccia un eventuale miglioramento della produzione industriale cinese, soprattutto nell’high-tech e nel comparto farmaceutico, settori di punta dell’export statunitense.

Come si può immaginare le richieste degli States sono state ritenute eccessive dalla delegazione asiatica a tal punto da definirle come “irricevibili” e per questo sono state respinte al mittente senza troppe esitazioni.

Al termine dei due giorni di incontri tuttavia le parti hanno ammesso di aver anche “raggiunto un’intesa su alcuni punti” senza però specificare altro se non che permangano “forti disaccordi”.

Secondo Xinhua, autorevole agenzia di stampa cinese, “le differenze restano grandi ma le due parti, tuttavia, si sono impegnate comunque a risolvere le loro dispute commerciali attraverso il dialogo”. Al di là delle dichiarazioni di facciata comunque la sensazione è che i margini per bloccare le tariffe sull’import cinese che dovrebbero scattare a giugno siano ridotti al lumicino.

Si ricorda inoltre che la miccia delle ritorsioni tariffarie, accesa da Trump a marzo 2018 ha già portato ad una prima risposta cinese con l’imposizione di dazi fino al 25% su 128 prodotti di importazione statunitensi, tra cui carne suina, frutta e vino.

Conseguenze per l’Italia

Ma il duello sulle barriere commerciali sino-americano rischia di avvantaggiare, almeno parzialmente, il comparto food&beverage del Belpaese. O almeno questo è il pensiero di Coldiretti che ha analizzato i dati Istat relativi all’export agroalimentare Made in Italy del 2017, rilevando che gli Usa rappresentano uno dei principali competitor italiani nelle vendite di una serie di prodotti fra cui proprio vino e frutta.

Nel 2017 Stati Uniti hanno infatti venduto vino in Cina per un valore di 70 milioni di euro e rappresentano oggi il sesto maggior fornitore del Dragone, immediatamente dietro all’Italia. Quello cinese è un mercato molto interessante per le nostre produzioni specialmente perché oggi la Cina rappresenta uno dei 5 Paesi che consumano più vino su scala globale e, come spiega Coldiretti, è dunque “un mercato strategico per i viticoltori italiani”.

Per quel che riguarda invece la frutta fresca la situazione è un po’ diversa dal momento che adesso il Belpaese può vendere in Cina solo kiwi ed agrumi anche se le cose potrebbero radicalmente cambiare se l’intenso dibattito sugli accordi bilaterali fra Italia e Cina, giunto ad uno stadio avanzato, andasse in porto perché - come sottolinea la Confederazione - “ciò potrebbe aprire nuove opportunità specialmente dopo lo “stop” alle forniture statunitensi ma si tratta di superare barriere tecniche cinesi che riguardano molti prodotti del Made in Italy“.

Dunque la guerra dei dazi fra Pechino e Washington apre quindi scenari inediti per le produzioni agroalimentari italiane ma non bisogna dimenticare che se il commercio mondiale dovesse effettivamente subire un brusco rallentamento a livello generale ci sono ottime probabilità che l’effetto complessivo, su un Paese marcatamente esportatore come l’Italia, sia negativo.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it

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