Bruxelles, Tokyo e Washington studiano una strategia comune per contrastare l’imponente crescita di Pechino nel settore siderurgico.

Nell’ultimo periodo i rapporti tra UE e Stati Uniti non sono certo idilliaci, tra le ultime preoccupazioni del Vecchio Continente c’è il nuovo piano fiscale messo a punto da Trump che potrebbe favorire le aziende americane e causare un’importante fuga di capitali verso gli USA.

Ma a Buenos Aires, dove è in corso la conferenza ministeriale della WTO, il commissario UE Cecilia Malmström ed il rappresentante per il commercio americano Robert Lighthizer si sono schierati ufficialmente contro il fenomeno del dumping su acciaio e alluminio attaccando (in modo indiretto) la Cina. Anche il ministro dell’economia giapponese Hiroshige Seko si è unito alla dichiarazione congiunta per sottolineare le preoccupazioni riguardo la mancanza di trasparenza in alcune pratiche commerciali dei membri del WTO e in particolare sulla sovraccapacità industriale di alcuni Paesi che sovvenzionano questa pratica attraverso sussidi statali. In particolare le dichiarazioni di Cecilia Malmström sono state molto esplicite: “Non è un segreto che la Cina sovvenziona le sue industrie per aumentare la produzione di alluminio e acciaio, questa situazione ha messo in ginocchio parecchi lavoratori europei. Il quadro è drammatico, ma la Cina non è l’unico peccatore”. Nel mirino anche la Corea del Sud e soprattutto l’India che negli ultimi anni hanno aumentato considerevolmente la produzione di acciaio rubando quote di mercato importanti proprio ad Unione Europea, Stati Uniti e Giappone.

La crescita della Cina preoccupa anche il Made in Italy

Le cifre della World Steel Association sulla produzione di acciaio mondiale accentuano le preoccupazioni del blocco UE, Stati Uniti e Giappone soprattutto nei confronti della Cina. Infatti Pechino è passata dalle 489,7 milioni di tonnellate prodotte nel 2007 alle 808,4 del 2016 (+65,1%): una crescita incredibile se paragonata alle produzioni dei principali competitor mondiali.

Ad esempio l’Europa ha fatto registrare un trend negativo passando dai 210,3 milioni di tonnellate di acciaio prodotte nel 2007 alle 162 dello scorso anno (-23%), così come il Giappone che ha visto diminuire la produzione del 16,7% nell’ultimo decennio con 104,8 milioni di tonnellate prodotte nel 2016. Anche gli Stati Uniti scontano la sovraccapacità industriale della Cina con la produzione di acciaio che è passata dalle 98,1 milioni di tonnellate del 2007 alle 78,5 del 2016 (-20%). In contrazione anche le produzioni negli ultimi dieci anni di Russia (70,8 e -2,2%) e Brasile (31,2 e -7,7%), mentre crescono considerevolmente Corea del Sud (68,6 e +33.2%) e India (95,4 e +78,3%).

I motivi della crescita cinese non sono da ricercare solo nel sistema dei sussidi di Stato a beneficio dei produttori di acciaio e alluminio, ma anche nell’obbligo per le aziende straniere di condividere la propria tecnologia con i partner locali. Ciò provoca il trasferimento di know-how, un passaggio obbligatorio ad oggi per operare sul mercato cinese: proprio per questo gli Stati Uniti hanno aperto un fascicolo per violazione della proprietà intellettuale da parte di Pechino, mentre un’indagine anti-dumping sui prezzi di alluminio e acciaio proveniente dalla Cina era già stata aperta lo scorso anno dalla nuova amministrazione Trump.

Unione Europea e Giappone, invece, fino ad ora hanno agito attraverso dei ricorsi inoltrati alla WTO evitando iniziative individuali. La dichiarazione di Buenos Aires ha l’obiettivo primario di unire le forze per schierarsi contro il colosso cinese attraverso un’azione congiunta, anche perché un’ulteriore preoccupazione di Bruxelles e Tokyo sono i dazi sulle importazioni ipotizzate dagli Stati Uniti. Questo creerebbe dei problemi anche per le industrie europee e giapponesi che attualmente esportano nel Nuovo Continente.

Infine quello della siderurgia è un settore fondamentale anche per il Made in Italy: nel 2016 la produzione tricolore di acciaio è tornata vicina alle 24 milioni di tonnellate, invertendo il trend negativo che durava dal 2012 grazie alla ripresa dell’Ilva che attualmente produce circa il 25% del totale nazionale.

I dati del 2016 di Federacciai mostrano una riduzione dell’1% dell’import sceso a quota 19,73 milioni di tonnellate, mentre l’export è salito dell’8,7% arrivando a 17,66 milioni di tonnellate. Resta il deficit commerciale nazionale equivalente a 2,07 milioni di tonnellate di acciaio, anche se nel comparto dei lunghi e dei prodotti di prima trasformazione (tubi saldati e senza saldature, filo trafilato e fucinati) l’Italia rimane uno dei leader europei con un surplus rispettivamente di 2,5 e 3,7 milioni di tonnellate.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Anthony Pascarella, redazione@exportiamo.it

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