In Italia gli investimenti diretti esteri (IDE) sono al di sotto della media europea anche se, secondo i dati dello European Attractiveness Survey di Ernst&Young, il 2015 (quindi ante-Brexit) è stato un anno record per i Paesi UE che hanno visto crescere gli IDE del 14%.

Il Belpaese invece continua a faticare e, pur occupando la nona posizione nel ranking in termini di attrattività potenziale, si piazza solo 18esima (due posizioni in meno rispetto all’anno precedente) per volume d’investimenti effettivamente ricevuti.

Come è noto gli IDE sono comunemente considerati uno strumento per valutare l’attrattività di un Paese nel contesto economico internazionale e salta subito all’occhio quanto, in quest’ambito, l’Italia possa e debba fare meglio.

Secondo un’indagine di UHY, network internazionale di società di revisione e consulenza fiscale, condotta sulle 44 maggiori economie mondiali analizzate, l’Italia occupa il 36esimo posto in termini di incidenza degli investimenti esteri sul PIL.

Dalla ricerca emerge che nel 2015 gli IDE hanno rappresentato appena lo 0,7% del PIL italiano, una percentuale, davvero, molto bassa sia rispetto ai primi Paesi della classifica (Malta e Singapore), sia rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea (dove in testa c’è la Spagna con il 2,1%, seguita dall’Inghilterra con l’1,8% e da Francia e Germania con l’1,4%).

Nel primo semestre del 2016, gli IDE in Italia hanno poi addirittura fatto registrare un calo rispetto allo stesso semestre dell’anno precedente ma, un’inversione di tendenza potrebbe verificarsi già da quest’anno grazie al taglio delle imposte che gravano sulle imprese - che dovrebbero passare dal 31,4% al 27,9% - introdotto dalla Legge di Stabilità approvata lo scorso inverno.

Proprio quello delle imposte è uno dei fattori che più negativamente incide sugli investimenti provenienti dall’estero: molte organizzazioni internazionali, infatti, lo ritengono un vero e proprio punto debole della nostra economia insieme all’inefficienza della pubblica amministrazione e ai ritardi della giustizia.

Secondo la Corte dei Conti il carico fiscale complessivo (il cosiddetto total tax rate) che aziende e cittadini italiani devono sopportare è del 64,8%, ben 25 punti percentuali superiore alla media dei Paesi europei.

Come se non bastasse, a gravare sulle imprese che operano in Italia non sono solo le uscite dalle casse aziendali, ma anche il tempo necessario per l’adempimento di tutti gli oneri burocratici: ben 269 ore lavorative.

Se, invece, si guarda al solo corporate tax rate (le tasse che gravano esclusivamente sulle imprese), la situazione (sebbene non rosea) migliora almeno un po’.
L’Italia infatti nella classifica dei Paesi europei si piazza, con il suo 43,4%, dopo Francia (48%), Belgio (46,8%), Austria (44,3%) e Svezia (44%).

La media dei 28 Paesi Ue, invece, si è stabilizzata al 39,9%; 3,5 punti in meno rispetto all’Italia.

Lo scenario europeo e quello internazionale sono comunque caratterizzati da un grande disallineamento: dalle percentuali elevatissime appena citate si passa al 12,5% dell’Irlanda (che non a caso è sede dell’headquarter di molte grandi multinazionali) e, addirittura, al 10% della Bulgaria.

In questo modo le più grandi imprese al mondo hanno la facoltà di scegliere i Paesi che offrono loro le migliori condizioni fiscali per insediare una propria sede. Non solo. Sono in grado anche di implementare modelli organizzativi, produttivi e di transfer price della massima efficienza nello spostare all’interno del gruppo ricavi e costi in modo da limitare al massimo le imposte da versare globalmente.

Questo tipo di disequilibrio provoca, soprattutto nell’Unione Europea, effetti negativi sulla concorrenza all’interno dei confini: qui, infatti, alla moneta unica non ha fatto seguito una politica fiscale comune ed anzi la sovranità dei singoli Paesi in questo ambito è ancora considerata un totem inattaccabile.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Francesco Bromo, redazione@exportiamo.it

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