Quando si fanno previsioni di business in Vietnam, paradossalmente la prima cosa da fare è partire dal passato. Più precisamente dal 1976, data della riunificazione del Paese sotto la guida del Partito Comunista, che da allora esercita un controllo stringente sull’economia a colpi di monopòli e piani quinquennali.
Gli esiti mediocri della pianificazione economica centrale hanno però comportato - negli anni ‘80 - un parziale cambio di rotta, con la trasformazione del Vietnam in un’economia socialista di mercato che strizza l’occhio ai capitali stranieri e fa convivere piccola impresa privata e colossi dell’industria pubblica. Stando alla Brenthurst Foundation, il Doi Moi (questo il nome del pacchetto di riforme) ha permesso una crescita del PIL reale nazionale a ritmi medi del 6% fra il 1990 ed oggi ed ha fatto lievitare nello stesso arco di tempo il reddito pro capite da 100$ agli attuali 2,100$.
Nonostante questi successi però, il Vietnam risulta ancora 60esimo su 138 paesi nel Global Competitiveness Index del WEF; ad affliggerlo sono sopratutto mancanza di infrastrutture, di personale qualificato (per l’UNDP solo il 30% di chi conclude il ciclo secondaro prosegue gli studi) ed il clima imprenditoriale strozzato dalla macchinosità della burocrazia (il Vietnam è 82° su 190 paesi nel Doing Business Index della BM) e dal dilagare della corruzione (la ADB stima che nel 2015 il 26% delle imprese vietnamite ha pagato una tangente e il 57% ha dovuto offrire “regali” per l’ottenimento di autorizzazioni pubbliche).
La situazione del Paese ha condizionato pesantemente i contenuti dell’accordo stipulato con l’UE nel 2015: vedremo infatti che le maggiori concessioni fatte dal Vietnam all’Unione si concentrano in campi che il governo sa di non poter sviluppare senza aiuti esterni. Questo però non significa che l’accordo sia un cattivo affare per l’UE ed anzi esso rappresenta un apristrada verso un Paese destinato - secondo la Banca Mondiale - a crescere ad un tasso medio del 6,3% nel prossimo triennio. Il Vietnam si trova infatti nel pieno del suo sviluppo e ciò garantisce alle imprese europee la possibilità di partecipare attivamente alla strutturazione dell’economia vietnamita attraverso una presenza precoce sul territorio (il Vietnam ha infatti pochissimi altri accordi in vigore).
Le principali novità sullo scambio di beni
Sul fronte merci, a colpire sono i periodi estremamente lunghi di phase-out tariffari che arrivano a 7 anni per l’UE e a 10 per il Vietnam. Infatti salvo il caso del settore ittico (liberalizzato al 99,7% a tre anni dall’entrata in vigore dell’accordo, non per caso dato che il Vietnam è il terzo esportatore al mondo), i comparti industriale ed agricolo dovranno fare i conti con tempi di attesa vicini ai 7 anni prima di vedere riduzioni dei dazi su un numero soddisfacente di staging categories vietnamite (anche se già dal primo giorno di entrata in vigore qualcosa come metà dei beni industriali avrà tariffe zero).
Dietro a queste dilazioni c’è sicuramente la volontà di Hanoi di proteggere l’ecosistema industriale nazionale, ancora fragile poiché composto per due terzi da PMI con bassi livelli di produttività (dati ADB). Ma a temperare il protezionismo vietnamita c’è l’obiettivo dichiarato delle autorità di sviluppare l’economia domestica facendone un polo manifatturiero internazionale. Ciò ha spinto il governo ad eliminare ostacoli regolamentari come VERs, export duties e transazioni consolari e ad accettare l’introduzione dell’autocertificazione per gli esportatori europei, di regole di cumulo bilaterali e della clausola di non-alterazione, pensata per facilitare l’import/export di beni intermedi con gli hub comerciali regionali. Se oggi già il 45% della manifattura vietnamita ricorre a input intermedi dall’estero, è probabile che con queste nuove regole la loro partecipazione alle GVC sia destinata a salire, creando interessanti opportunità di export.
Servizi, Investimenti, SOEs e appalti pubblici
Anche le concessioni su servizi ed investimenti sono state fatte dal Vietnam nell’ottica di sviluppare gli anelli deboli della propria economia, ovvero infrastrutture, trasporti, comunicazioni e sviluppo di capitale umano. Non a caso infatti il Vietnam impone al grosso de gli investimenti europei la partecipazione di imprese locali attraverso i Business Co-operation Contracts e le Public-Private Patrnerships [PPP], fatti salvi quelli nella manifattura, nei servizi architettonici, urbanistici, ingegneristici, ICT, istruzione, ricerca e sviluppo e consulenza manageriale, che vengono liberalizzati totalmente.
Per quanto riguarda i settori strategici sotto controllo dello Stato vanno notati gli aumenti degli equity cap delle PPP in telecom e trasporti marittimi e la liberalizzazione dei servizi postali. Il settore pubblico vietnamita si propone inoltre come acquirente di beni e servizi europei: negli anni a seguire dall’entrata in vigore del trattato la soglia minima del valore dei contratti di fornitura per le PPAA è destinata a scendere drasticamente. In più gli europei potranno offrire beni e servizi a ministeri, ad alcune entità a livello sub-nazionale fra Hanoi e Ho Chi Minh City (che da sole fanno il 50% procurement sub-nazionale), a due utilities pubbliche di prima importanza (VietNam Railways ed Electricity VietNam), e 35 ospedali. Le opportunità create dall’accordo sono evidenti se si considera che la spesa pubblica rappresenta da sola il 40% del PIL vietnamita.
L’EU-Vietnam dal punto di vista italiano
Fra le voci dell’export italiano che dovrebbero beneficiare per prime del nuovo accordo ci sono quelle legate all’industria e alle infrastrutture. Fra i beni industriali oggetto di liberalizzazione immediata (staging category A) troviamo infatti, oltre al 70% del comparto chimico, moltissimi macchinari, da quelli di uso specifico (packaging, brillatoi, macchine piegatrici, tipografiche etc), a quelli necessari (filtri, pompe, sistemi di ventilazione), passando per macchine autonome e componentistica varia. In particolare, il peso sull’economia vietnamita di agricoltura e tessile (unito al relativo “nazionalismo” dei consumatori finali locali) potrebbe generare occasioni interessanti per chi esporta macchinari legati alla trasformazione in questi due settori.
Attenzione però alla concorrenza dei paesi asiatici: attualmente il 70-80% dell’import vietnamita di macchinari proviene da Cina, Corea e Giappone, il che potrebbe creare problemi di inserimento agli ultimi arrivati. La strategia vietnamita di crescita industriale poggia per ovvi motivi anche sullo sviluppo di una rete infrastrutturale adeguata. L’apertura agli IDE in servizi urbanistici, architetturali e ingegneristici e l’aumento dei tetti alle partecipazioni nelle PPP vanno lette alla luce degli straordinari investimenti fatti negli ultimi anni nel settore (per l’ADB 5,7% del PIL, uno dei valori più alti della regione). Le promesse di guadagni sono però limitate dalla fumosità delle intenzioni vietnamite in fatto di politiche bancarie: da un lato le autorità considerano l’idea di risolvere l’eterno problema di sottocapitalizzazione del settore attraverso l’aumento dei tetti all’azionariato estero/privatizzazione degli istituti in sofferenza ma dall’altro fanno fatica ad affrancarsi da modalità di gestione stataliste (vedi nazionalizzazione della Vietnam Construction Bank e le recenti strette imposte dal governo ai depositi stranieri presso le banche locali).
Al netto degli ostacoli di natura finanziaria però le prospettive di investimenti restano comunque positive (SACE attribuisce al paese un punteggio di 70/100 nel suo Investment Opportunity Index), certamente a causa delle iniziative vietnamite volte ad attrarre capitali e know-how stranieri. C’è poi il farmaceutico, settore al quale l’EU-Vietnam riserva moltissimi bonus: circa metà dei prodotti EU entrerà a tariffe zero sin dal primo giorno di entrata in vigore (il resto sarà scaglionato in 7 anni); in più il governo ha facilitato le procedure per l’apertura di filiali straniere nel paese e quelle per l’ottenimento delle autorizzazioni pubbliche per R&D e commercializzazione di nuovi farmaci. Le possibilità di espansione sono inoltre moltiplicate dal rinforzo degli IPR (+2 anni di protezione dei brevetti per compensare eventuali ritardi nella registrazione) e dall’estensione dell’accesso al procurement ospedaliero. Nei prossimi 16 anni peraltro la soglia minima di procurement farmaceutico riservata ai produttori nazionali dovrebbe calare al 50%, mentre il resto dovrebbe aprirsi ai competitor esterni (fra cui gli europei).
Infine, sui beni di consumo, l’Italia deve aspettare che il Vietnam sviluppi una classe media con un potere d’acquisto adeguato ai prodotti italiani, generalmente di fascia medio-alta. Un aspetto consolante è che quando questo avverrà, l’Italia potrà già contare sulla protezione di ben 38 IGP e capitalizzare sull’assenza di fette di mercato perse a causa della contraffazione.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Velia Angiolillo, redazione@exportiamo.it
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