Alla fine pare proprio che i negoziati per la creazione della più grande area di libero scambio che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto, il TTIP, sigla anglosassone che indica il Partenariato Transatlantico per il commercio e gli investimenti, siano definitivamente falliti (anche se di definitivo non c’è nulla quando ci sono di mezzo politica ed economia). La libera circolazione di beni e servizi tra USA ed UE, non si farà, almeno per il momento.

Tuttavia, ad infliggere il colpo mortale a delle trattative che si trascinavano stancamente da anni, tra gli europei non disposti ad accettare diktat e gli americani non disponibili a mediare, non sono state le recenti rivelazioni di Greenpeace, né la dura lotta mediatica messa in campo dai movimenti “STOP TTIP”, bensì la Brexit.

Gli inglesi, infatti, erano la sponda principale e forse l’unica su cui gli Stati Uniti contavano per vincere la contrarietà e le paure degli altri membri della UE nei confronti del partenariato transatlantico e per questa ragione il Segretario di Stato Americano John Kerry ha provato a buttare acqua sul fuoco (senza, tuttavia, ottenere grandi risultati) chiedendo ai membri dell’Unione Europea di mantenere la calma ricordando che l’alleanza tra Stati Uniti ed Europa negli ultimi cinquant’anni: “è stata essenziale per promuovere la pace, la sicurezza e la prosperità” e che la creazione di una grande zona di libero scambio potrebbe “controbilanciare gli effetti negativi che potrebbero essere provocati da una intesa tra il Regno Unito e l’Unione europea”.

Le preoccupazioni di Washington paiono giustificate visto che il Ministro francese al Commercio estero Matthias Fekl, commentando l’uscita ufficiale del suo Paese dalle trattative (alle quali in realtà la Francia non aveva mai partecipato con molto entusiasmo), ha dichiarato: “Non c’è alcuna possibilità che si chiuda la partita prima della fine dell’amministrazione Obama, data l’inconciliabilità delle posizioni delle parti”.

A rafforzare il concetto sono arrivate le parole del Ministro italiano allo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, che in realtà sembrano più che altro una presa di coscienza da parte di uno dei più convinti sostenitori del TTIP: “È molto difficile che il TTIP passi: sarà una sconfitta per tutti”.

Calenda attribuisce le colpe del fallimento delle trattative alla governance dell’Unione Europea, alla base anche del possibile fallimento del CETA, l’accordo di libero scambio con il Canada, la cui ratifica è “appesa al voto negativo anche di un solo Parlamento nazionale dell’Ue”. Secondo Calenda è necessario creare un’Europa federalista che non sia ostaggio dei governi nazionali e dei populismi, che di volta in volta sollevano lo spauracchio della perdita di sovranità.

Da un punto di vista economico, un accordo commerciale tra Stati Uniti, Unione Europea e Regno Unito avrebbe creato delle triangolazioni capaci di superare gli effetti negativi della Brexit evitando, magari, la creazione delle tanto paventate barriere tariffarie e strategiche che danneggeranno gli scambi commerciali tra i Paesi dell’Unione e la Gran Bretagna e che, solo per quanto riguarda l’Italia, costeranno oltre 2 miliardi di euro nei prossimi due anni.

Quanto varrebbe un accordo commerciale tra UE ed USA?

Già oggi, l’area commerciale UE-USA vale quasi la metà del PIL mondiale e circa 1/3 degli scambi globali (2 miliardi al giorno).
Secondo stime della Commissione Europea l’entrata a regime del TTIP (per il quale sarebbe necessario un periodo di 10 anni), farebbe aumentare il PIL comunitario di 120 miliardi di euro all’anno, incremento pari allo 0,5% del PIL attuale.

La creazione di tale area è subordinata, ovviamente, al superamento delle attuali tariffe doganali (attualmente al 4%), ma soprattutto di importanti aspetti normativi.

Il TTIP, infatti, si basa su tre pilastri:

1) un migliore accesso ai mercati per le imprese europee e statunitensi;
2) la semplificazione dei regolamenti tecnici, senza un abbassamento degli standard;
3) la definizione di regole globali sul commercio, tra cui lo sviluppo sostenibile, l’ambiente e l’attenzione a piccole e medie imprese.

L’eliminazione dei dazi e delle altre barriere non tariffarie renderebbe più vantaggioso e competitivo l’acquisto di beni e servizi, dato l’abbassamento del prezzo di acquisto.

Gli Stati Uniti, con il Presidente Obama in prima fila, avrebbero voluto accelerare la negoziazione arrivando all’approvazione del trattato entro la fine del mandato presidenziale, ma ormai anche loro sembrano rassegnati al fallimento delle trattative anche in considerazione delle ormai imminenti elezioni per l’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti che vedono sfidarsi Donald Trump, acceso oppositore del TTIP ed Hilary Clinton, che, sebbene dello stesso partito di Obama, non ha tra le sue priorità la riapertura delle negoziazioni con l’Europa.

Anche in Europa, infatti, nel prossimo biennio si svolgeranno importanti tornate elettorali che porteranno ad un naturale avvicendamento degli interlocutori, con il timore da parte di molti di un successo diffuso di forze nazionaliste favorevoli alla disgregazione dell’Unione Europea.

La sensazione è che una crisi economica (e non solo) lunga ormai quasi un decennio abbia sfiancato tutti e che manchino le forze per combattere a favore di politiche unitarie sia in Europa che nel Mondo; gli sforzi di tutti paiono concentrati solo sugli interessi nazionali. Perfino le forze di sinistra, infatti, non vedono più di buon occhio la globalizzazione alla quale viene attribuita la responsabilità della crisi economico-finanziaria di questi ultimi anni ed il relativo contagio oltre le frontiere nazionali.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Francesco Bromo, redazione@exportiamo.it

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