Ci sono voluti 8 anni e 19 round di negoziati tra le parti per arrivare alla conclusione della Trans Pacific Partnership (TPP) e ieri ad Auckand, in Nuova Zelanda, si è arrivati al dunque.
I rappresentanti dei 12 Paesi che condividono l’ambizioso patto multilaterale di libero scambio che interessa quasi il 40% dell’economia globale (Stati Uniti, Giappone, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Messico, Cile, Peru’, Singapore, Malaysia, Vietnam e Brunei) hanno finalmente firmato l’accordo di libero scambio, fortemente voluto dalla Casa Bianca e dal Presidente Obama che a fine mandato continua a raccogliere i risultati delle sfide lanciate durante i suoi mandati, segnando un passaggio storico per l’economia globale innanzitutto, e naturalmente per gli interessi statunitensi.
Si tratta di un progetto ambizioso che lo stesso Obama considera di vitale importanza per l’evoluzione del commercio e delle relazioni economiche globali nel XXI^ secolo, il secolo dell’Asia, proprio perché - “Il TPP stabilisce nuovi e alti standard per il commercio e gli investimenti in una delle regioni del mondo più importanti e a più rapida crescita, con l’eliminazione di oltre 18.000 tasse e oneri che vari Paesi impongono sui prodotti Made in America” - e adesso tocca al Congresso degli Stati Uniti, garantire la ratifica dell’accordo entro fine anno, proprio perché la sfida lanciata è di portata storica e “la TPP consente all’America - e non a Paesi come la Cina - di scrivere le regole di indirizzo per il XXI secolo, cosa particolarmente importante in una regione così dinamica come l’Asia-Pacifico”.
È il secolo dell’Asia e non potrebbe essere altrimenti dunque e come gli Stati Uniti, anche gli altri 11 Paesi firmatari, dovranno ratificare l’accordo, sul piano nazionale e certamente a Washington come altrove non mancano divisioni e tensioni.
I sostenitori del TPP sono convinti che questa nuova partnership aumenterà commercio e sviluppo nella regione, rendendolo più equo ed eliminando la maggior parte delle tariffe e delle altre limitazioni al commercio, come visto, con il Presidente Obama in primis. Gli oppositori al contrario vedono nel TPP un’erosione della sovranità nazionale e darà troppo potere alle aziende degli Stati Uniti.
Nella visione di Obama che fin dall’inizio della sua presidenza si è impegnato nel “rebalancing” verso l’Asia della politica americana - non solo commerciale ma anche a livello strategico - la conclusione dell’accordo ricopre un’importanza assoluta come driver di sviluppo nella regione sul piano sociale, economico e ambientale, condividendo con gli altri Paesi firmatari sensibilità oggi assenti in merito alla legislazione sul lavoro, alla liberalizzazione dell’accesso alla rete e alla protezione ambientale, oltre naturalmente a portare un beneficio all’economia statunitense stimato in 100 miliardi di dollari all’anno.
Nel frattempo però, con le solite primarie in Iowa è entrata nel vivo la lotta per la successione ad Obama ed entrambi i candidati democratici - Hillary Clinton e Bernie Sanders - hanno dichiarato la loro opposizione alla ratifica dell’accordo, mentre in ambienti repubblicani l’opposizione nasce dalla frustrazione nei confronti di un nuovo eventuale successo da sbandierare in politica estera da parte di Obama sul finire del suo mandato.
Il problema naturalmente si pone anche negli altri Paesi firmatari con opinione pubblica e società civile ad esprimere contrarietà ad un accordo che viene fondamentalmente valutato un regalo ai grandi gruppi economici, piuttosto che un volano per lo sviluppo della condizione e della dignità dei lavoratori o della convenienza per i consumatori ed anche ad Auckland non sono mancate manifestazioni di protesta, sfociate in scontri con le forze dell’ordine.
Sullo sfondo rimane comunque forse il più importante ed ambizioso accordo di libero scambio mai concluso, ma soprattutto a fare scalpore è la portata geopolitica dell’accordo sullo scacchiere asiatico, dal momento che fondamentalmente lo scopo principale è combattere e contrastare l’egemonia cinese sulla regione asiatica.
L’accordo segna anche nuove basi per i rapporti commerciali tra la prima economia e la terza economia mondiale, tra Stati Uniti e Giappone ed anche a Tokyo l’accordo trova forti resistenze soprattutto da parte del settore agricolo.
Dalla prospettiva europea invece, se i negoziati tra Ue e Giappone per concludere un’Economic Partnership non si sbloccheranno, a subirne le conseguenze saranno i produttori del Vecchio Continente ed in particolare chi opera nel settore agroalimentare, dovendo subire lo svantaggio competitivo di dazi più alti rispetto alla concorrenza su un mercato importante come quello nipponico.
I Paesi firmatari nutrono anche la speranza che il nuovo accordo potrà favorire un rapporto più stretto delle politiche economiche e di regolamentazione tra i Paesi membri, puntando ad un’armonizzazione che non può che favorire lo sviluppo.
L’accordo interessa la maggior parte dei beni e dei servizi ma non tutte le tariffe sulle importazioni saranno rimosse, perché in alcuni casi servirà più tempo e le parti hanno quindi concordato alcune clausole di eccezionalità collegate a settori e prodotti diversi.
Rimane il fatto che una volta entrato in vigore - se accadrà - la TPP interesserà una popolazione complessiva di circa 800 milioni di persone, ovvero quasi il doppio rispetto a quello del mercato unico dell’Unione europea che però oggi nel frattempo rischia l’implosione. Il fatto è che con l’eventuale ratifica della TTP sembra tramontare anche l’idea di un regime universale per il libero scambio ma, come sempre, solo chi vivrà vedrà…
Fonte: a cura di Exportiamo, di Antonio Passarelli, redazione@exportiamo.it
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