L’innovazione distruttiva dell’oggi e i profondi stravolgimenti alla nostra quotidianità dovuti alle evoluzioni della tecnologia negli ultimi 35 anni, non possono non avere conseguenze anche sulle relazioni umane e sul piano antropologico, ovvero sullo stesso stare in società di chi ne è al contempo consumatore e produttore.
È giusto dunque interrogarsi come fa fDi Magazine nel suo ultimo numero sul “Millennial Effect”, ovvero come la generazione del nuovo millennio rappresenti oggi il principale oggetto di studio da decifrare per le aziende, perché sono in mano a loro le sorti del futuro.
Si parla di “Generazione Y” per i nati tra il 1980 e il 2000, attualmente il 40% della forza lavoro globale e ben il 75% entro il 2025. Si tratta dell’ultima generazione del II^ millennio e della prima ad essere “nativa digitale”, un gruppo demografico che incarna un cambiamento di rotta tanto nei consumi, quanto nel processo decisionale.
Tra le prime tendenze che balzano agli occhi vi è una svalutazione del concetto di proprietà a favore di una visione e una fruizione condivisa di beni e servizi e secondo una ricerca condotta da Goldman Sachs, ad esempio, possedere una casa non è una priorità per il 60% dei Millennials e possedere una macchina è “estremamente importante” per solo il 15% e già bastano questi due dati per renderci conto di quanto siano stravolte le scale di valori e lo stesso guru ed economista Jeremy Rifkin afferma senza problemi che “tra 25 anni, il car sharing sarà la norma, e l’auto di proprietà l’anomalia”.
Gli studiosi affermano come per i Millennials, la loro visione del mondo sia stata modellata dalla globalizzazione rapida, dall’aumento esponenziale della connettività sociale e dall’accesso immediato alle informazioni che ha portato l’avvento della rete.
Tutto questo ne influenza la quotidianità, nel lavoro e nelle relazioni, e la “spiritualità” non solo negli obiettivi ma anche nelle stesse abitudini di consumo e, cosa ancora più importante per le aziende che devono cogliere queste nuove sensibilità, è un effetto a catena anche sulle generazioni più anziane.
In sostanza quindi, l’impulso dei Millennials su relazioni economiche e sociali, modifica il paradigma per quel che riguarda aspirazioni e motivazioni sul lavoro e per quel che riguarda ricerca di appagamento e soddisfazione nei consumi. Tutto ciò naturalmente pone le aziende di fronte alla sfida di cambiare radicalmente il modo di fare business.
Se per le generazioni precedenti, quelle del dopoguerra, del boom economico e delle certezze geopolitiche di un contesto bipolare che semplificava la visione del mondo e lo stesso senso di appartenenza e identità; la visione ottimale era quella che garantiva stabilità e conquiste incrementali per garantire la propria serenità e quella dei propri cari, oggi non è più così e i sondaggi mostrano che la priorità crescente per i giovani sul posto di lavoro è un senso di scopo e allora la mission aziendale e non solo gli stipendi e i benefit, diviene fondamentale per attrarre i talenti.
Sempre fDi Magazine cita i dati di un sondaggio Deloitte dello scorso anno dai quali emerge come il 77% degli intervistati tra i “Millennials” abbia dichiarato di scegliere il proprio lavoro in ragione del senso di scopo nei confronti della società.
La visione di fondo generazionale è quella che impone un “reset” per le imprese nella loro corsa al mero profitto, per concentrarsi e alzare il tiro verso “l’avanzamento e il benessere della società”, dato confermato dal fatto che l’appeal delle grandi imprese multinazionali per i Millennials, è minore nei mercati sviluppati (35%), rispetto a quelli emergenti (51%).
L’aspettativa è quella di avere un impatto per favorire il cambiamento, mentre il fatto di rappresentare - come direbbe “Il consulente imbruttito” - una generazione molto più “skillata” delle precedenti, secondo una ricerca “Forbes” porta la metà a dire che saranno alla ricerca di un nuovo lavoro entro il prossimo anno e oltre il 90% è convinto di lasciare il loro attuale datore di lavoro nei prossimi tre anni.
In questo caso però il rigetto verso la tradizionale scala (e scalata) aziendale, nasce dal fatto che si è alla ricerca di nuove esperienze di continuo e di avanzamenti di carriera più repentini, perché ben 7 su 10, in definitiva lavora per se stesso ed il tutto si risolve in una visione di crescita personale, prima ancora che professionale, che può anche portare a virate esistenziali totali.
All’orizzonte vi è quindi una battaglia per i talenti da parte di manager ed aziende e come si legge in un recente studio commissionato dalla società leader del real estate commerciale, Cushman & Wakefield “mentre le vecchie generazioni si adattavano al luogo di lavoro, Millennials aspettano che il posto di lavoro sia adattato a loro” e ben 88% per cento dei Millennials vuole essere al centro di un processo di apprendimento costante garantito dall’azienda, mentre la quasi totalità (95%) dichiara di lavorare di più quando capiscono il loro contributo alla missione della propria azienda.
In sostanza, per restare competitivi nella battaglia per il talento, bisogna essere capaci di offrire un ambiente di lavoro aperto e flessibile, così come la mobilità tra le diverse aree professionali, in un’ottica di interdisciplinarietà nelle competenze che sempre di più rappresenta la leva di competitività delle aziende finita l’era del dogma della specializzazione, portando con se – per i lavoratori - nuove opportunità e accresciute responsabilità.
Andando invece all’analisi dei nuovi consumatori, del loro potenziale di acquisto stimato ad oggi in circa 2.450 miliardi di dollari e della loro sensibilità, bisogna partire dalla constatazione che l’affermazione dell’individualità guida la presa di coscienza di ognuno e risulta quindi difficile scinderne le dinamiche che orientano il consumo. Ciò detto non si può non considerare come la tecnologia e l’innovazione anche qui abbiano un peso decisivo, perché i Millennials convivono in simbiosi quotidiana con 2-3 dispositivi tecnologici.
Gli smartphone , i tablet e i notebook oggi rappresentano un’estensione della propria persona e la relazionalità introdotta dall’avvento dei social network e più in generale dall’evoluzione del web da canale unidirezionale di comunicazione a fluida realtà dove ognuno è consumatore e produttore al contempo, impongono innovazioni e considerazioni per le aziende se vogliono restare al passo con le nuove sensibilità nei consumi. Le vetrine non servono più, ma anche in questo caso serve instillare nell’acquirente la consapevolezza di entrare a far parte di qualcosa di più vasto e immateriale, scegliendo il proprio prodotto.
Bisogna constatare come il gap a livello geografico in questo caso è molto influente e l’obiettivo deve essere quello di dare uguali opportunità tecnologiche ai Millennials nel mondo in via di sviluppo e i numeri che abbiamo davanti non possono essere ignorati se si considera che entro il 2020 l’Asia deterrà il 60% della forza lavoro dei Millennials e che l’età media in tutta l’Africa è di 18 - sette anni più giovane di quello del sud Asia, con più di 200 milioni di persone con età compresa tra i 15 ei 24 anni e che entro il 2050, sempre in Africa dovrebbe concentrarsi un terzo della popolazione mondiale.
Favorire lo sviluppo nelle telecomunicazioni e nell’IT a livello globale risulta quindi un elemento cruciale per superare le evidenti barriere attuali e favorire lo stesso sviluppo dell’imprenditorialità nei Paesi in via di sviluppo, garantendo pari opportunità ed accrescendone la competitività nello scenario globale.
Nick Martin, CEO e fondatore di TechChange che con la sua piattaforma ha già formato più di 10.000 persone in 170 paesi e lavora per colmare il divario tecnologico, sull’importanza di questa visione non ha dubbi perché:
“La capacità dei giovani di migliorare le loro comunità dipende sempre di più l’uso efficace degli strumenti tecnologici - e oggi più che mai persone in tutto il mondo chiedono nuovi tipi di addestramento per fare la differenza”.
Fare la differenza attraverso la propria azione, il proprio esempio e anche i propri acquisti in una realtà dove l’individualità è condivisa e, per una generazione abituata a diffondere le proprie idee nella società in maniera non filtrata ma virale, avendo definito essa stessa con l’utilizzo, l’essenza e la ragion d’essere della cultura dei social media, si comprende bene quale possa essere l’immenso potere su marketing, politica e cambiamento sociale, in maniera del tutto diversa rispetto al passato.
Personalmente essendo nato nel 1983, rientro appieno nella “Generazione Y” dei Millennials e ho vissuto sulla mia pelle cosa voglia dire crescere con un paradigma poi non riscontrato, il più delle volte, al momento del dunque nella realtà.
Rimango comunque convinto del fatto che l’asset maggiore per quelli come me, nati prima della Caduta del Muro perché lì è la cesura fondamentale e non solo per l’evoluzione della coscienza collettiva ma anche per il crollo di importanza relativa del nostro Paese (ma questa è un’altra storia che però in pochi raccontano); sia proprio nel preservare le nostre “sensibilità analogiche” in quest’epoca in cui la riflessione filosofica fondamentale sullo stato dell’uomo nel mondo, non può non concentrarsi proprio sul rapporto con la tecnica.
Al Philip Kotler Marketing Forum 2015, da pionieri abbiamo constatato come lo stesso marketing va oltre le sue frontiere, addentrandosi verso una sua declinazione transpersonale capace di cogliere i bisogni collettivi.
L’uomo non si risolve più nella sua individualità egoistica nella casa, nella macchina e nel vezzo all’ultima moda, ma sempre di più in una prospettiva comunitaria e così, dopo la rivoluzione delle tribù basate sui propri codici e le proprie identità a fare da guida nella rivoluzione della sua declinazione non convenzionale, il marketing si rivolge oggi alle comunità e ai valori che ne sono alla base, andando oltre la soddisfazione di un bisogno egoistico e materiale, ma indirizzandosi verso il soddisfacimento di bisogni che - appunto in un’ottica transpersonale - trascendono l’individualità.
Come sempre l’importante è restare umani!!!
Fonte: a cura di Exportiamo, di Antonio Passarelli, redazione@exportiamo.it
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