Può funzionare un mercato composto da 1,4 miliardi di persone in cui i beni non sono completamente contendibili ed in cui lo Stato interviene influenzandone il libero andamento?
La risposta a questa a domanda sembra materializzarsi con crescente drammaticità in questo inizio 2016 che vede la Cina e, di riflesso, le principali piazze finanziarie internazionali, cadere nel cosiddetto panic selling, la massiccia vendita di strumenti finanziari che provoca inevitabili crolli di valore.
Di fronte a questa situazione, il 7 gennaio le autorità cinesi hanno deciso di imporre il blocco forzato delle contrattazioni sui mercati dopo soli trenta minuti dall’apertura della Borsa ma - secondo gli esperti - non sarebbe questo ad aver fatto scattare l’allarme sui mercati internazionali.
I timori maggiori riguardano il generale andamento dell’economia che va incontro ad una brusca frenata nel breve-medio periodo, un’eventualità sempre più certa e sulla quale ormai le voci fuori dal coro sono sempre di meno.
Il governo cinese continua a sostenere lo yuan e nel 2015 sono stati spesi circa 500 miliardi di dollari a tal fine, mentre il sistema bancario prosegue nell’erogazione di prestiti a famiglie ed imprese generando un’impennata del rapporto debito generale/Pil che ha raggiunto il 282%, un valore quasi raddoppiato dal 2007 quando era fermo al 150%.
La situazione a Pechino crea una preoccupazione profonda e generalizzata specialmente se si analizzano alcuni dati a partire dalle sofferenze bancarie - stimate in circa 1200 miliardi di dollari - mentre il rischio sistemico cinese rimane di gran lunga il più elevato su scala globale (800 miliardi di dollari), il doppio di quello degli USA.
Tradotto, se crolla il “gigante dai piedi di argilla” il rischio è che l’effetto domino che si produrrebbe sui mercati internazionali sarebbe devastante soprattutto perché i fattori di criticità - crescenti minacce terroristiche, tensioni in Medio Oriente e basso prezzo del petrolio che fa intravedere lo spettro della deflazione - si stanno moltiplicando a livello globale.
Pechino oggi non sembra intenzionata a compiere quel cambio di passo a livello di politica economica che in molti auspicano e che suggerirebbe al colosso cinese di puntare, finalmente, sulla “costruzione” di un mercato interno florido, anziché insistere con pervicacia nelle svalutazioni competitive per favorire le esportazioni.
Ormai la differenza fra il moderno settore export cinese e l’evidente ritardo del resto del Paese è troppa e per sostenere la crescita di profitti e salari servirebbe uno yuan forte, che disincentivi il tessuto imprenditoriale cinese a puntare sull’export a vantaggio del mercato interno.
La realtà dei fatti però sembra aver preso un’altra direzione e la Cina non appare determinata ad affrontare la sfida più grande, riformare se stessa intraprendendo un deciso processo di modernizzazione che coinvolga tutti gli strati della società e che incida su quelle problematiche ataviche che ne bloccano lo sviluppo, “liberando” così il Paese dal controllo di uno stato opprimente ed ostinato nell’esercitare il proprio controllo su ogni settore.
La doppia svalutazione dello yuan nei confronti del dollaro avvenuta nei primi dieci giorni del 2016, è la più nitida conferma che la Cina oggi punta ancora forte sull’export senza curarsi troppo della situazione interna ai propri confini e soprattutto senza comprendere che un’eccessiva svalutazione potrebbe produrre un effetto boomerang per l’economia nazionale, facendo crescere il rischio per le numerose società cinesi indebitate in dollari.
La credibilità delle autorità cinesi è in discesa agli occhi degli operatori internazionali tanto che lo scetticismo aleggia sulle stime governative di crescita del Pil per il 2016 (+6,9%) e sul piano industriale “Made in China 2025” recentemente annunciato dal presidente Xi Jinping che dovrebbe rilanciare innovazione e ricerca nel prossimo decennio.
Solo un segnale concreto come ad esempio la decisione di stabilizzare il valore di un certo paniere di valute estere in corrispondente valuta cinese - magari proprio quel paniere in cui il Fondo Monetario Internazionale ha deciso poche settimane fa di far entrare anche lo yuan - potrebbe rassicurare i principali partner commerciali cinesi sulle reali intenzioni di Pechino.
In realtà ad essere diffuso è invece il timore che il rallentamento cinese possa far rivedere in negativo le previsioni di crescita su scala mondiale e nel caso specifico italiano le difficoltà cinesi potrebbero provocare conseguenze non piacevoli dal momento che le relazioni bilaterali sono intense e la Cina rappresenta un partner commerciale indispensabile con un interscambio annuo di oltre 30 miliardi di euro, in crescita nell’ultimo triennio (2013-2015).
Le opportunità per le aziende italiane a Pechino sono molteplici ed in particolare di grande appeal godono specifici settori (tecnologie verdi, agroalimentare, urbanizzazione sostenibile, servizi sanitari ed aerospaziale) per la notevole complementarità tra le capacità tecnologiche ed industriali italiane e la necessità di sviluppo e le nuove sensibilità cinesi.
In effetti i flussi di investimenti diretti esteri (IDE) italiani in Cina sono consistenti (10-15 miliardi di euro) e le imprese italiane presenti sul territorio cinese sono circa 2.000 ed impiegano 60.000 persone, generando un giro d’affari pari a 5 miliardi di euro.
Nel periodo 2014-2015 le esportazioni italiane verso la Cina - trainate dal positivo andamento di meccanica strumentale, moda ed automotive - sono cresciute ad un ritmo superiore al 6% e ciò ha certamente aiutato il sistema economico italiano a riportare la crescita in territorio positivo nell’anno appena concluso.
L’evoluzione delle turbolenze sui mercati asiatici ci riguarda dunque molto più da vicino di quanto si possa immaginare e potrebbe decisamente influenzare le stesse stime di crescita del PIL italiano nell’anno in corso.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it
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