Se fino a qualche anno fa ad utilizzarle erano solo gli addetti ai lavori ormai le parole startup ed innovazione, anche nel nostro Paese, stanno definitivamente entrando nel linguaggio comune.
L’autoimprenditorialità, in un periodo di sostanziale stagnazione economica, si configura sempre più come un’opzione valida per far fronte al grande problema occupazionale che affligge soprattutto le generazioni più giovani e il proliferare delle startup ne è la dimostrazione.
Strettamente connessi al fenomeno, ma un po’ meno sotto la luce dei riflettori, sono gli incubatori e gli acceleratori d’impresa, spazi fisici in cui si offrono beni e servizi alle neo-imprese per favorirne lo sviluppo.
A fornire questo concreto supporto alle idee imprenditoriali sono diverse figure professionali, tra formatori, tutor e manager con competenze specifiche in vari settori (strategia aziendale, marketing, finanza, etc..) i quali innanzitutto analizzano l’idea progettuale, valutandone la fattibilità economico-finanziaria. Successivamente viene valutata la potenziale redditività del progetto e si quantificano le risorse necessarie per farlo nascere e infine si assistono i futuri imprenditori nella gestione dell’attività e del business andando a caccia di potenziali finanziatori.
Incubatore e acceleratore di impresa sono associati a due fasi distinte e così, se l’incubatore focalizza le proprie attività nella fase iniziale della startup, gli acceleratori subentrano in un secondo momento, ovvero quando il processo di avvio è già finalizzato e si intende ricercare o diversificare le fonti di finanziamento.
In Italia sono circa 160 le realtà esistenti tra incubatori ed acceleratori (fra i più importanti H-Farm, Digital Magics e L-Venture) e spesso risultano essere anche i primi investitori delle imprese assistite.
A livello normativo gli incubatori d’impresa sono regolamentati dalla legge 221/2012 che definisce l’incubatore di startup come una società di capitali, costituita anche in forma cooperativa, che offre servizi per sostenere la nascita e lo sviluppo di startup innovative che siano in possesso di determinati requisiti:
• disponibilità di strutture ed attrezzature adeguate ad accogliere e favorire lo sviluppo di startup innovative;
• disponibilità di una struttura tecnica, di consulenza manageriale permanente e di un consistente patrimonio in termini di know-how;
• il mantenimento di rapporti stabili di collaborazione con università, centri di ricerca, istituzioni pubbliche e partner finanziari che svolgono attività collegate a startup innovative.
Il 2015, complice proprio il rafforzamento di strumenti come quello dell’incubatore d’impresa, è stato un anno magico per le startup italiane che hanno abbattuto ogni record in termini di nuove aperture (+ 76% per un totale di circa 5mila imprese), investimenti attratti (135 milioni di euro), fatturato complessivo (200 milioni di euro) e personale impiegato (giunto a quasi 30.000 unità).
Numeri incoraggianti che restituiscono fiducia all’intero settore.
Al raggiungimento di tale risultato ha senza dubbio giovato la crescita della credibilità degli incubatori di impresa nei riguardi del sistema finanziario e di conseguenza, la loro capacità di attrarre capitali d’investimento.
La geografia dell’innovazione “Made in Italy” conferma che la parte settentrionale dello stivale viaggia ad una velocità superiore a quella rispetto al resto del Paese. Tra le città ottima la performance di Torino, Rimini, Milano e Bologna, mentre a livello regionale primeggiano Toscana, Veneto e Friuli.
Decisamente più indietro il centro-sud con rare eccezioni rappresentate per lo più da Roma, Napoli, Bari e Catania.
Andrea Rangone, responsabile “Osservatorio Digital Innovation” del Politecnico di Milano, spiega come ormai gli incubatori stiano sempre più entrando a far parte della realtà imprenditoriale italiana:
“Oggi sono attivi in Italia poco meno di 160 incubatori d’impresa ma sono pochi quelli che possono trasmettere alle nuove imprese che formano e sviluppano un patrimonio di qualità di competenze e di relazioni. C’è un problema di massa critica: più startup lavorano assieme e più rapidamente crescono contaminandosi tra di loro. E’ proprio un tratto distintivo di questo settore innovativo: se in un piccolo incubatore locale, come ce ne sono tanti, lavorano solo due o tre piccoli team di startupper, avranno meno possibilità di farcela”.
Dunque ciò che sembra essere chiaro è che per accelerare la crescita delle startup sia molto positiva, una continua e profonda contaminazione che ha cominciato a diffondersi grazie al boom del cosiddetto coworking, uno stile lavorativo che coinvolge la condivisione di un ambiente di lavoro, spesso un ufficio, mantenendo un’attività indipendente. A differenza dell’ambiente d’ufficio tradizionale coloro che fanno coworking non sono, nella maggior parte dei casi, impiegati nella stessa organizzazione e possono quindi sfruttare il reciproco contatto e le rispettive competenze.
Il governo in questo senso sembra aver colto il processo in corso, specialmente se si fa riferimento alle parole di Paolo Barberis, consigliere del premier Renzi per l’innovazione digitale:
“Stiamo lavorando su tre punti. Uno, la creazione di quartieri digitali: luoghi nelle città in grado di attrarre i talenti digitali, e di sviluppare idee innovative. Luoghi di scambio per le comunità tech. Puntiamo al riuso di edifici del patrimonio pubblico. Due, aumentare incentivi e semplificazioni burocratiche per attrarre startup e pmi digitali. Vogliamo diventare un paese ospitale per la tecnologia. Tre, mettere a punto incentivi per il capitale di rischio dove l’Italia è molto indietro: negli ultimi 15 anni il volume del venture capital italiano è stato di 2,8 miliardi di euro, contro i 505 miliardi degli Stati Uniti”.
I profitti di un incubatore o acceleratore di impresa sono però molto incerti. In linea generale questi soggetti riescono a coprire le spese che sostengono, facendo pagare alle startup associate la bolletta cumulativa dei servizi comuni quali affitto dei locali, elettricità, connessione ad internet, etc., ma per ottenere un vero e proprio profitto il fattore di rischio è molto elevato.
Accade spesso che i professionisti che decidono di diventare partner di queste realtà forniscano alle startup che ne facciano richiesta, servizi di consulenza ed assistenza in cambio non di un corrispettivo in denaro, bensì di quote societarie della startup assistita, assumendosi dunque un rischio a livello individuale.
In prospettiva futura sarà poi compito del mercato determinare la “crescita” dell’impresa e quindi riconoscere l’eventuale plusvalenza ai consulenti-investitori.
Sarebbe importante che l’esecutivo, oltre a spendere belle parole sul tema, metta in piedi un programma d’investimenti pubblico serio ed efficace che dia slancio all’innovazione delle nostre startup per far finalmente diventare l’innovazione il motore di una crescita economica che continua a latitare.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it
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