La XXI Conferenza delle Parti (COP 21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) si è conclusa a Parigi lo scorso 12 dicembre con la firma di un accordo da parte di tutti i delegati dei Paesi partecipanti e dunque - anche se in chiaroscuro - epocale.
I lavori iniziati il 30 novembre, come accaduto negli ultimi 20 anni in occasione delle diverse COP, si sono protratti oltre la scadenza fissata inizialmente all’11 novembre.
Nel presentare il testo definitivo il Presidente della COP 21, il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, commentando positivamente l’accordo raggiunto ha messo ben in chiaro le responsabilità per i partecipanti:
“Un accordo giusto, duraturo, bilanciato. Se lo rigetterete i nostri figli in tutto il mondo non ci capiranno né ci perdoneranno”.
L’obiettivo della conferenza è stato quello di concludere - per la prima volta dopo oltre 20 anni di mediazione da parte delle Nazioni Unite - un accordo vincolante e universale sul clima, accettato da tutte le nazioni, un accordo politico, bisogna ricordarlo fin dal principio.
Già perché alcune di queste disposizioni sono legalmente vincolanti, mentre alle altre i vari paesi possono aderire solo in maniera volontaria.
Alla storia rimane il fatto che i ministri e i rappresentanti dei 195 paesi più l’Unione Europea, non si sono tirati indietro e dopo l’ennesima lunga sessione di discussioni, dall’assemblea plenaria è stato adottato il testo di 31 pagine, la cui cerimonia ufficiale di firma sarà il 22 aprile 2016 a New York, mentre l’entrata in vigore è prevista non prima del 2020, ovvero 30 giorni dopo la ratifica dello stesso da parte di almeno 55 parti responsabili per almeno il 55% delle emissioni globali di gas serra.
Quattro i punti principali in merito a obiettivi, metodo e risorse per passare - finalmente, definitivamente e prima che sia troppo tardi - dalle parole ai fatti concreti:
• Mantenere il riscaldamento climatico al di sotto del fatidico 2%, limitandolo all’1,5% soglia limite, oltre la quale alcune nazioni insulari rischierebbero di essere inghiottite dal mare;
• Arrestare al più presto l’incremento di emissioni di gas serra per essere capaci di raggiungere nella seconda parte del nostro secolo, il momento di equilibrio in cui la produzione di nuovi gas serra sarà sufficientemente bassa da essere assorbita naturalmente.
• Revisione e riflessione ogni 5 anni a partire dal 2023 sul progresso degli accordi presi attraverso un meccanismo di revisione da parte della COP stessa in merito ai progressi relativi all’accordo e alla rivalutazione degli impegni individuali;
• Investimenti di oltre 100 miliardi di dollari entro il 2020 da parte dei governi ricchi a favore dei paesi poveri per sostenerne lo sviluppo, ed aiutarli a fronteggiare le conseguenze già in atto del cambiamento climatico come dimostrano desertificazioni ed inondazioni.
L’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura globale del pianeta al di sotto dei 2° C è ambizioso e non mancano infatti osservatori attenti a far notare come il testo in realtà non fornisca una chiara road map - soprattutto in relazione agli obiettivi a breve termine - demandando il tutto alle Intended Nationally Determined Contributions (INDC) dei singoli paesi.
La quasi totalità degli stati partecipanti ha presentato la propria INDC ovvero le azioni già in atto o che si intendono adottare e che nel concreto rappresentano quindi la base degli impegni di riduzione delle emissioni globali, un dato straordinario in termini di partecipazione e “rappresentatività” in termini di emissioni. A preoccupare è invece il fatto che allo stato attuale - analizzando le INDC - l’aumento della temperatura previsto è tra i 2,7°C e i 3,7°C.
Le conclusioni del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), il foro scientifico nato nel 1988 allo scopo di studiare il riscaldamento globale sotto l’auspicio dell’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) e del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), segnalano invece la portata reale del cambiamento da mettere in atto perché per limitare il riscaldamento a 2°C è necessario tagliare le emissioni entro il 2050 del 40-70% rispetto al 2010, mentre per raggiungere il target ancora più nobile di 1,5°C il taglio - sempre entro il 2050 - dovrà essere ancora più sostanziale, tra il 70-95%.
Il cambiamento climatico rappresenta un problema di tremenda urgenza e gli sforzi appaiono sempre insufficienti in materia, ma va riconosciuto come Parigi rappresenti un nuovo punto di partenza e molto sarà invece il lavoro demandato alle future COP, ma adesso il punto è che tutti devono mettersi subito al lavoro, su nuove basi condivise e ampliarle nel tempo.
Ad esempio in merito ai meccanismi di trasparenza e revisione, il testo introduce una cornice flessibile, con i diversi Paesi chiamati a presentare regolarmente un inventario delle emissioni prodotte ed assorbite; aggiornamenti sui progressi compiuti, sul trasferimento di capitali e conoscenze tecnologiche e sul supporto alla capacity-building.
L’accordo come accennato affronta anche il nodo chiave della differentiation la diversa responsabilità storica in materie di inquinamento tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo e nel testo si legge:
“i paesi sviluppati devono fornire le risorse finanziarie per assistere i Paesi in via di sviluppo”.
Su questo punto le critiche mosse sono relative alla mancanza dei dettagli sulle effettive dimensioni dei finanziamenti, sul quando e sul come saranno forniti.
Il punto di svolta che dovrebbe rappresentare l’accordo di Parigi è proprio quello di far cambiare verso alla politica economica globale che finora si è retta sull’aumento inesorabile delle emissioni di carbonio e il conseguente riscaldamento del pianeta, un processo iniziato durante la rivoluzione industriale che oggi deve trovare un punto di equilibrio prima e decrescere poi, se non vogliamo vedere il mondo bloccato e stravolto da conseguenze devastanti.
L’accordo deve quindi rappresentare innanzitutto un segnale per i mercati finanziari e energetici globali, innescando un cambiamento di coscienza fondamentale nella destinazione degli investimenti verso fonti di energia rinnovabili, sostituendo carbone, petrolio e gas.
Le stesse Organizzazioni Non Governative (Ong) presenti alla Cop, pur lontane dall’essere soddisfatte, hanno riconosciuto il momento di svolta perché come ha dichiarato il Direttore Esecutivo di Greenpeace Kumi Naidoo:
“Questo accordo mette l’industria dei carburanti fossili dal lato sbagliato della storia. Molto in questo testo è stato diluito ed epurato dalle persone che saccheggiano il nostro pianeta, ma contiene il nuovo imperativo di limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C”.
o ancora May Boeve, direttore esecutivo di 350.org – la rete globale a sostegno della lotta in difesa del clima attiva in 188 paesi, dove il numero 350 indica la sicurezza del clima, ovvero la riduzione di CO2 in atmosfera da maggiore a 400 parti per milione al di sotto di 350 - che afferma:
“Questo testo marca la fine dell’era dei carburanti fossili, non c’è modo di raggiungere gli obiettivi enunciati in questo accordo senza tenere carbone, petrolio e gas nel terreno”.
La maggiore critica che viene invece avanzata al documento, è il fatto che non sono previste sanzioni in caso in cui gli obbiettivi non vengano raggiunti, e che sostanzialmente diversi paesi avranno margine per ignorare le raccomandazioni contenute nel documento.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, nell’esortare i partecipanti per il raggiungimento dell’accordo aveva dichiarato:
“Il traguardo è in vista, ora finiamo l’opera. È arrivato il momento di capire che gli interessi nazionali sono preservati al meglio agendo nell’interesse comune internazionale. Le soluzioni al cambiamento sono sul tavolo, sta a noi prenderle”.
A risultato acquisito lo sguardo invece va già oltre, mirando al nuovo orizzonte che con l’Accordo di Parigi oltre ad essere realtà - “Ciò che una volta era impensabile, ora non si può più fermare” - diviene finalmente in consapevolezza.
Innegabile dire come il risultato finale sia comunque in chiaroscuro perché non ha affrontato aspetti rilevanti del problema (ad esempio le emissioni connesse ai trasporti internazionali) e non ha esplicitamente affermato l’abbondono delle fonti di energia fossile, obiettivo oggettivamente anche irraggiungibile a voler essere onesti e a non farsi travolgere - nel bene o nel male - dalla retorica.
Il compromesso raggiunto rappresenta un approdo anche se incerto, certamente insperato e come sempre saranno le persone a fare la differenza. Per la stessa Parigi - nell’ultimo anno vittima del terrore e associata al sangue, alla morte e al delirio dell’intolleranza subito - un mese dopo gli ultimi folli eventi, il suo nome si lega alla conclusione di un accordo che in tutto e per tutto è un passo verso la vita, necessario innanzitutto perché - tra i vari messaggi lanciati dalla Tour Eiffel nei giorni precedenti il raggiungimento dell’accordo - uno forse in particolare ha risuonato nei cuori e attivato le coscienze di tutti, “No Plan B”, ovvero la semplicità di affermare che non esiste un’alternativa ad un’etica della responsabilità, non più tollerabile solo come esercizio intellettuale.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Antonio Passarelli, redazione@exportiamo.it
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