PMI italiane senza pace, accesso al credito giù per 21 miliardi nel 2015

PMI italiane senza pace, accesso al credito giù per 21 miliardi nel 2015

10 Dicembre 2015 Categoria: Marketing Internazionale

Dall’inizio della crisi economica la difficoltà nell’accesso al credito e la crisi di liquidità (credit crunch) per le nostre imprese ha frenato gli investimenti, in primis quelli altamente strategici in innovazione e ricerca, ostacolando di conseguenza la stessa ripartenza economica.

In realtà il momento attuale è caratterizzato da un approccio eccessivamente basato sulla cautela da parte degli istituti bancari, preoccupati innanzitutto della solvibilità dei propri clienti e pretendendo di conseguenza condizioni molto più rigide. La stretta dell’accesso al credito quindi in questo momento non è “pilotata” dalle banche centrali che al contrario continuano a mantenere su livelli molto bassi i tassi di interesse.

Le evoluzioni degli ultimi mesi sono comunque state repentine come emerge dalla stessa indagine semestrale della Banca Centrale Europea (BCE) sull’accesso ai finanziamenti da parte delle aziende dell’area euro con personale inferiore a 250 dipendenti.

Secondo il report tra aprile e settembre 2015, quasi un 1/3 delle imprese dell’eurozona ha richiesto un finanziamento bancario e solo 2 su 3 se lo è visto concedere per l’intero ammontare voluto, mentre solo il 9% si è visto respingere al mittente la richiesta.

L’indagine elaborata dall’istituto guidato da Mario Draghi non porta buone nuove per l’Italia dal momento che per la prima volta dal 2009 le PMI europee percepiscono come superiore la possibilità di accesso al credito rispetto alle loro attuali esigenze di finanziamento, ciò non è vero per il Belpaese, le cui imprese - insieme a quelle di Francia ed Austria - continuano ad avvertire come inadeguata l’offerta creditizia.

In questa fase quindi, se per le PMI europee l’accesso al credito è un problema “minore” rispetto al trovare clienti per i propri prodotti e servizi, la situazione è più critica per le realtà italiane che devono ancora fronteggiare un’offerta di credito titubante e prudente. La nota lieta invece è la discesa dei tassi d’interesse richiesti dal sistema bancario italiano, situazione che non si verificava ormai dal lontano 2009.

In realtà l’eccessiva cautela adottata dalle banche italiane, leggendo un recente studio della Camera di Commercio di Mestre, appare eccessiva soprattutto se rivolta al panorama delle nostre PMI.

I problemi nel recupero dei crediti erogati risultano in crescita soprattutto nelle classi di finanziamenti più elevate, ovvero quelli erogati alle aziende di grandi dimensioni.

Lo spiega nel dettaglio Paolo Zebeo, membro dell’Ufficio Studi della CGIA di Mestre:

“Tra il giugno di quest’anno e lo stesso mese del 2014 le classi di grandezza delle sofferenze bancarie fino a 75.000 euro hanno registrato una contrazione, mentre quelle da 75.000 e 125.000 sono aumentate appena dello 0,5%. Niente a che vedere con quanto è successo in quelle più elevate. Nella fascia tra i 500.000 e il milione di euro la variazione è stata dell’11,4%, per quella successiva, tra 1 e 2,5 milioni, l’aumento è stato del 14,5% e per le classi ancor più elevate l’incremento ha superato il 18%. Se teniamo conto che il livello delle insolvenze è proporzionale alla dimensione dei prestiti ricevuti, possiamo affermare con un elevato grado di precisione che le famiglie e le piccole imprese continuano a essere più solvibili delle grandi imprese”.

Impressionante anche il dato relativo al taglio del credito subito dalle imprese italiane fra il 2011 ed il 2015 che è stato pari a 114 miliardi di euro, (21 miliardi solo nel 2015).

Appare intuitivo come questa situazione potrebbe portare ad un indebolimento ulteriore del tessuto industriale italiano ed ad una perdita di competitività nei confronti delle imprese europee che, con una maggiore disponibilità di credito, hanno maggiori possibilità di investimento.

Se si osservano i dati nel complesso nel periodo 2011-2015, famiglie e PMI evidenziano una consistente crescita delle sofferenze bancarie (oltre il 45%) rispetto ai dati molto più contenuti dell’ultimo anno che sono intorno al 3-4%, ma comunque sensibilmente minore rispetto a quanto si osserva per società non finanziarie (+107,8%), società finanziarie (+282,5%) e pubbliche amministrazioni (+484,6%).

A livello territoriale le situazioni più difficili si sono registrate nel Centro Nord ovvero in Toscana (+134,3%), il Trentino A.A. (+114,5%) e le Marche (+114,2%) guidano la classifica della clientela più insolvente.

Nel 2015, sul fronte dei prestiti bancari, spiccano poi i dati negativi riferiti alle imprese, sia a livello micro (-0,7%) e sia per società non finanziarie con più di 5 addetti (-2,5%) ed enti no profit (-4,4%), mentre è positivo il dato per famiglie (+2,6%), Amministrazioni pubbliche (+2%) e società finanziarie (+5,6%).

Quello che è piuttosto chiaro invece è che in Italia la situazione travisa lo spirito pratico del Quantitave Easing (QE) - recentemente esteso fino a marzo 2017 da parte della BCE – che avrebbe dovuto agevolare l’accesso al credito bancario fornendo agli istituti di credito quel surplus di cassa nei bilanci, tale da poter ridare ossigeno finanziario alle PMI.

In Italia finora tutto ciò è un processo incompiuto perché le istituzioni bancarie sono più orientate ad investire la liquidità concessa dal QE in aziende mature con sufficiente cash flow e non in realtà meno strutturate.

In particolare per le start-up innovative non sarà facile rilanciarsi e fare innovazione senza un intervento che Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente dell’Università Bocconi di Milano, ha ribattezzo “Capital Act”, un insieme di norme mirato a rilanciare la nostra economia attraverso semplificazioni, più certezze e più flessibilità per chi investe dal momento che:

“Il Governo ha già fatto un disastro portando la tassazione delle rendite finanziarie al 27%, il livello più alto in Europa dando un fortissimo disincentivo agli investimenti con capitale di rischio. In ogni caso deve essere chiaro che non è mestiere delle banche finanziare le start-up. I vincoli a cui devono attenersi, per le regole di Basilea, legano loro le mani nel fare investimenti ad alto rischio. Servirebbe invece un buon tessuto di private equity e venture capital, che sono invece naneschi in Italia.”

Il suggerimento finale è invece molto amaro: “Alle start-up italiane consiglio di aprire sede legale nel Regno Unito o negli Stati Uniti. Ma va bene qualsiasi altro Paese europeo, più dell’Italia: anche la Spagna.”

Tutto questo accade mentre l’esecutivo ed i principali media nazionali sono impegnati nella discussione sulla crescita annua del PIL del Paese che sembra oscillerà fra lo 0,7 e lo 0,9%, siamo sicuri che sia proprio questa la questione a cui dedicare maggiore impegno ed energia?

Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it

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