La portata dell’accordo raggiunto il 5 ottobre ad Atlanta negli Stati Uniti dopo un’estenuante, decisivo e risolutivo round negoziale sulla Trans-Pacific Partnership (TPP) è rivoluzionaria, uno spartiacque le cui conseguenze interessano ed interesseranno non solo il commercio, ma gli stessi equilibri geopolitici presenti e futuri nella regione del Pacifico, con Washington che rafforza e rende più profondi legami già consolidati con i Paesi dell’area.
I 12 Paesi firmatari (Stati Uniti, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Brunei, Canada, Cile, Malesia, Messico, Perù, Singapore e Vietnam) del mega-regional agreement - il più importante dall’Uruguay Round del 1994 che aveva portato alla nascita del WTO – rappresentano in sostanza il 40% dell’economia mondiale e naturalmente adesso dovrà essere approvato dal Congresso americano e dai rispettivi governi degli altri 11 Paesi.
Negli otto anni di negoziato non sono mancate le tensioni e come sempre accade, le criticità sono arrivate fino in fondo e gli ostacoli più insidiosi sono stati l’apertura dei mercati lattiero-caseari e quello della componentistica legata al mercato delle automobili, oltre a questioni connesse alla proprietà intellettuale. In Georgia dopo sei giorni di sessioni negoziali non-stop, si è arrivati al traguardo che porterà all’eliminazione di barriere tariffarie e non-tariffarie e all’adeguamento degli standard commerciali in una vasta area dell’Asia-Pacifico.
Il compromesso raggiunto ad Atlanta ruota intorno ad alcuni capisaldi a partire appunto dalla riduzione progressiva di oltre 18.000 dazi e barriere all’interscambio all’interno dei paesi dell’area, aumenterà il lavoro e gli standard ambientali e imporrà norme più stringenti su brevetti e proprietà intellettuale.
Nell’ultimo report dell’Amministrazione americana e del suo negoziatore, Mike Froman vengono stimati i possibili benefici derivanti dall’accordo che permetterà di aumentare le esportazioni statunitensi di oltre 120 miliardi di dollari da qui al prossimo decennio, mentre a livello globale i benefici supererebbero i 300 miliardi di dollari annui.
Il TPP nella visione del Presidente Barack Obama che a fine mandato - dopo i successi in politica estera con Iran e Cuba - incassa un risultato di portata storica in materia di politica economico-commerciale, sarà lo strumento necessario per creare quel “rebalancing” necessario per spostare gli interessi degli Stati Uniti verso il Pacifico, nell’ottica di contrastare il potere commerciale che la Cina, soprattutto a partire dal 2001, dopo il suo ingresso nel WTO, ha consolidato nella regione.
Quello che stiamo vivendo è il secolo dell’Asia e lo dimostra la progressiva crescita economica dei paesi e, naturalmente, Pechino ha avuto e vuole continuare ad avere un ruolo da protagonista, com’è avvenuto in questi anni cercando di estendere la sua influenza attraverso la promozione di negoziati commerciali alternativi, grandi investimenti e la creazione di nuove istituzioni finanziarie multilaterali quali l’Asian Infrastructure Investment Bank e la New Development Bank.
L’accordo concluso conferma come si sia perso di vista l’obiettivo - e pragmaticamente anche l’ambizione – di arrivare ad accordi universali come dimostra lo stallo sul Doha Round in seno al WTO, mentre si assiste al proliferare di accordi regionali che contribuiscono alla configurazione di una nuova geopolitica del commercio mondiale a geometria variabile.
Chiuso l’impegno sul fronte orientale, adesso le attenzioni dell’amministrazione statunitense si potranno concentrare sulla conclusione del negoziato sulla sponda atlantica con l’Unione Europea per il TTIP. Il Vice Ministro Carlo Calenda, strenuo sostenitore del partenariato transatlantico, in merito allo storico accordo di Atlanta ne ha voluto sottolineare la portata rivoluzionaria e indicare i passi da seguire per arrivare fino in fondo:
“E’ una svolta fondamentale nella globalizzazione. Per i BRICS sarà molto più difficile continuare a indulgere in pratiche protezionistiche e di dumping. Ora dobbiamo lavorare rapidamente per completare il negoziato per il TTIP prima delle elezioni presidenziali americane. Perché ciò sia possibile, gli Stati membri dell’Ue devono ritrovare compattezza e appoggiare il lavoro della Commissione, smettendo di insguire quella parte minoritaria della pubblica opinione europea che è pregiudizialmente contraria al TTIP per ragioni ideologiche.”
Non rimane quindi come sempre seguire le evoluzioni, senza dimenticare che l’ideologia anima non solo l’opinione pubblica ma anche la classe dirigente e cercando di non perdere di vista il fatto che al centro della visione deve rimanere sempre l’uomo, soprattutto nel momento in cui si sottoscrivono impegni che vanno ad incidere nella quotidianità di tutti, questa dovrebbe essere una lezione acquisita dalla storia, ma spesso non basta.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Antonio Passarelli, redazione@exportiamo.it
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