“La necessità di una riforma é evidente da molti anni, o addirittura da decenni, i vari Paesi hanno scelto di stringere questi accordi per ottime ragioni, per attrarre gli indispensabili investimenti grazie ad una migliore prevedibilità giuridica e ad una miglior tutela dei diritti di proprietà degli investitori. Allo stesso tempo, oggi ci troviamo ad affrontare un mosaico mondiale di accordi. Questi accordi hanno anche avuto un gran numero di conseguenze impreviste e a volte di grande portata per il diritto di regolamentazione, tanto per i Paesi sviluppati quanto per quelli in via di sviluppo. Gli accordi internazionali “di vecchio stile” sugli investimenti sono oramai giunti ad un punto morto. Una riforma renderebbe la rete globale di accordi internazionali sugli investimenti (IIAs) più atta a soddisfare le esigenze e le realtà di oggi e di domani” ha dichiarato in maniera abbastanza esplicita Mukhisa Kituyi, Segretario Generale di UNCTAD in occasione della pubblicazione dell’edizione 2015 del World Investment Report.
Nel rapporto che come ogni anno si esprime con la sua doppia anima, da un lato descrittiva, fornendo una panoramica esaustiva sui trend e i flussi di Investimenti Diretti Esteri (IDE) e un monitoraggio delle iniziative legislative intraprese e dall’altro tematica, fornendo suggerimenti di policy e focalizzando quest’anno l’attenzione proprio sul tema “Reforming International Investment Governance” evidenziando come gli IIAs possono limitare eccessivamente, in maniera quasi inconscia a volta, lo spazio normativo delle parti contraenti, mettendo a rischio lo stesso raggiungimento degli obiettivi di politica pubblica e sviluppo.
Così come anche il meccanismo per la composizione delle vertenze risente di una crescente crisi di legittimità e come abbiamo visto a più riprese e anche recentemente, la c. d. clausola ISDS (Investor to State Dispute Settlement) é forse il pomo della discordia principale per arrivare alla conclusione del negoziato, anche se c’é chi a tratti irresponsabilmente almeno a parere di chi scrive, minimizza la questione.
E’ stata la stessa UNCTAD nell’ultimo aggiornamento dello scorso mese di maggio con i dati relativi ai ricorsi da parte degli investitori al regime ISDS, a segnalare come nel 2014 siano stati 42 i casi registrati che portano il numero totale dei ricorsi a 608.
Un altro dato interessante che dimostra il ruolo crescente e sempre più importante dei paesi in via di sviluppo e delle economie in transizione é notare come nel 40% dei casi, ad essere chiamati in causa sono gli stessi Paesi Sviluppati.
Nel rapporto di UNCTAD si sottolinea come i vari Paesi potrebbero utilizzare gli accordi in maniera più efficiente, come strumenti per l’effettiva promozione e agevolazione degli investimenti, ed identificare le responsabilità da attribuire agli investitori in cambio della protezione che tali accordi forniscono loro, un po’ la stessa visione espressa durante la sua recente visita a Roma dal Commissario Europeo al Commercio, Cecilia Malmstrom, riferendosi ai negoziati in corso sul TTIP:
“Dobbiamo proteggere imprese e capitali delle imprese UE all’estero da discriminazioni e nazionalizzazioni. Miriamo a una Corte Internazionale per gli Investimenti a tutti gli effetti, con un sistema di appello completo, al posto del meccanismo arbitrale in uso oggi. Ci sarà un chiaro riferimento al fatto che i governi hanno il diritto di regolamentare nell’interesse pubblico”.
Il WIR 2015 registra anche un ulteriore incremento nel 2014 degli IIAs conclusi (+31) raggiungendo la cifra record di 3.300 accordi a regolamentare gli investimenti in giro per il mondo, mentre i paesi si interrogano sulla necessità di avviare delle riforme e nel 2014 sono stati 50 i paesi che hanno messo mano alla regolamentazione, mentre sul piano degli interventi legislativi avviati nel 2014, il “censimento” UNCTAD registra 84 misure di liberalizzazione e 16 di restrizione/regolamentazione, legate principalmente ad aspetti connessi alla salute pubblica e alla sicurezza nazionale.
La seconda dolente nota sollevata dal WIR in questo 2015 é invece quella legata la fenomeno dell’elusione fiscale e sempre Kituyi, segretario generale UNCTAD, ha ribadito come:
“La priorità politica é quella di agire contro l’elusione fiscale, per sostenere la mobilitazione delle risorse interne e per continuare ad agevolare gli investimenti produttivi per uno sviluppo sostenibile”.
Nel rapporto si suggeriscono alcuni metodi per affrontare il problema con politiche “sinergiche”, specialmente alla luce del finanziamento degli obiettivi di sviluppo sostenibile per il periodo 2016–2030, che verranno fissati a settembre dalle Nazioni Unite.
Serve una coerenza maggiore tra la fiscalità internazionale e le politiche di investimento.
L’UNCTAD valuta infatti il contributo da parte delle consociate estere delle aziende multinazionali ai bilanci governativi nei Paesi in via di sviluppo in circa 730 miliardi di dollari all’anno ovvero circa il 23% dei contributi totali aziendali ed il 10% delle entrate governative.
Questo é superiore nei Paesi in via di sviluppo rispetto ai Paesi sviluppati, evidenziando l’esposizione e la dipendenza dai contributi aziendali nei Paesi in via di sviluppo.
Il problema é che la pianificazione fiscale ha contribuito ad accrescere il ruolo dei poli offshore negli investimenti aziendali globali e le multinazionali possono contare su una vasta gamma di leve per l’elusione fiscale, servendosi nella maggior parte dei casi di strutture di investimento che coinvolgono entità a fini speciali, o appunto società veicolo, nei poli offshore di investimento.
Però si fa notare come i profitti che vengono istradati fuori dai Paesi in via di sviluppo possono avere un notevole impatto negativo sulle loro prospettive di sviluppo sostenibile essendo nella maggioranza dei casi meno equipaggiati per affrontare pratiche assai complesse di elusione fiscale, a causa della mancanza di competenze tecniche e risorse.
La perdita di gettito fiscale legate agli investimenti in entrata direttamente connessi ai poli offshore sono valutate per un totale di 100 miliardi l’anno e si dimostra come esiste un chiaro rapporto tra la quota di investimenti dai poli offshore negli IDE in entrata nei Paesi ospitanti e la quota dichiarata (tassabile) di utili sugli investimenti esteri diretti: maggiore é la quantità di investimenti istradati tramite poli offshore, più viene ridotto l’ammontare dei profitti tassabili e mediamente nelle economie in via di sviluppo, ogni 10 punti percentuale di investimenti offshore, si ha un punto percentuale in meno di tasso di rendimento.
Come ogni anno, da ormai tre lustri, in Italia la presentazione del WIR é stata organizzata dall’Agenzia ICE e si é svolta presso la sede romana dell’agenzia governativa che come ha dichiarato aprendo i lavori lo stesso Direttore Generale, Roberto Luongo, sta potenziando la propria struttura proprio sotto il profilo dell’attrazione degli investimenti e a breve verranno anche avviati 4 dei 10 desk speciali previsti presso la rete estera ICE.
Andando ai dati invece ci dicono che gli IDE globali sono crollati del 16% fino ad arrivare a 1,23 trilioni nel 2014. Il crollo può essere spiegato con la fragilità dell’economia globale, con l’incertezza delle politiche per gli investitori e con i notevoli rischi geopolitica e infatti viene segnalato come anche i nuovi investimenti sono stati controbilanciati da alcuni grandi disinvestimenti.
Il rapporto rivela che la Cina é divenuta il principale destinatario degli IDE nel 2014, seguita da Hong Kong (Cina) e dagli Stati Uniti d’America e - come già abbiamo avuto modo di approfondire in occasione della World Investment Conference della WAIPA - le economie in via di sviluppo, come gruppo, hanno attratto IDE per un valore di 681 miliardi di dollari e restano il settore principale per la percentuale di afflusso di investimenti globali e tra i primi 10 destinatari di IDE al mondo, la metà sono economie in via di sviluppo: Brasile, Cina, Hong Kong (Cina), India e Singapore e nel 2014, 9 dei 20 principali Paesi investitori sono economie in via di sviluppo o economie di transizione (Cile, Cina, Hong Kong (Cina), Taiwan (provincia cinese), Kuwait, Malesia, Repubblica di Corea, Federazione Russa e Singapore), con le aziende dei Paesi asiatici in via di sviluppo che hanno investito all’estero più di qualsiasi altra regione.
Guardando oltre invece si afferma come una ripresa duratura negli IDE globali sia prevedibile, con una crescita prevista pari all’11%, fino a 1,4 trilioni di dollari nel 2015 e ulteriori incrementi, fino a 1,5 trilioni di dollari nel 2016 e fino a 1,7 trilioni di dollari nel 2017.
I paesi sviluppati dovrebbero registrare un notevole incremento dei flussi nel 2015 (in ascesa di oltre il 20%), come riflesso di un’attività economica più forte, mentre i flussi di IDE verso i paesi in via di sviluppo continueranno ad essere sostanziosi, aumentando in media del 3% nei prossimi due anni.
Naturalmente tutto potrebbe venire ribaltato da un grande numero di scenari economici e politici, tra cui le continue insicurezze nell’Eurozona, i potenziali effetti collaterali delle tensioni geopolitiche e le persistenti fragilità nelle economie emergenti.
L’Italia con 11, 3 miliardi di dollari di IDE in entrate e circa 23,5 miliardi in uscita, segna una flessione rispetto all’anno precedente che aveva visto una ripresa dopo “l’anno zero” 2012 quando gli IDE in entrata sono stati quasi in nulla e decisamente modesti quelli in uscita (circa 8 miliardi di dollari), la situazione come ha fatto notare Bruno Casella durante la presentazione romana é meno tragica del previsto perché cresce il valore degl investimenti in equità e crolla quello relativo ai prestiti, il che significa una riduzione dei debiti delle partecipate, e il dato e in linea anche con i competitor europei (Francia e Spagna) mentre nel confronto, preoccupa lo scarso dinamismo dei nostri flussi in uscita.
Fonte: a cura di Exportiamo, di Antonio Passarelli, redazione@exportiamo.it