La storia si ripete in maniera ciclica e inesorabile, é un dato e il mondo di oggi ci ha abituato a tutto e al contrario di tutto.

L’andamento dei prezzi del petrolio, ad esempio negli ultimi sei mesi ha subito un crollo verticale del 60% e tutto ciò sta rimescolando le carte nell’economia mondiale.

Assodata la ciclicità, bisogna considerare che ogni oscillazione ha cause e dinamiche uniche anche se il meccanismo che fa scattare la discesa dei prezzi é sempre quello, non cambia: un eccesso di offerta rispetto alla domanda, a cui non segue un’immediata riduzione dei volumi. 

La situazione attuale nasce da un doppio fenomeno.

Tra il 2011 e il 2014 nei soli Stati Uniti la produzione petrolifera é aumentata da 7,8 a 11,6 milioni di barili al giorno (Mbbl/g), su un totale mondiale di circa 90 Mbbl/g.

Questo incremento é avvenuto quasi interamente grazie all’aumento della produzione da argille (shale oil) ottenuto adottando le tecniche di fratturazione idraulica e di perforazione orizzontale, usata, quest’ultima anche nei giacimenti convenzionali.

L’aumento di produzione in Nordamerica ha ridotto le importazioni, liberando volumi per altri mercati.

Al contempo dal lato della domanda qualcosa non é andato come previsto e con la domanda europea ormai in perenne contrazione, il calo della domanda proveniente dai mercati asiatici - sbocco pressoché inevitabile delle esportazioni – si é creato uno scompenso tra la domanda attesa dagli operatori e quella effettivamente registrata, che ha innescato la discesa dei prezzi.

Sulla base delle nuove aspettative di debole domanda, la stessa Agenzia internazionale per l’energia ha tagliato le stime di crescita della domanda quattro volte negli ultimi cinque mesi.

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Il mercato petrolifero mondiale vale alcuni miliardi di dollari al giorno e la principale conseguenza del crollo dei prezzi del greggio é una netta riduzione del valore degli scambi e se questo può stimolare la crescita nei paesi importatori, riduce drasticamente i flussi di cassa nei paesi produttori.

Per gli operatori privati la dinamica dei prezzi fa parte dei rischi d’impresa e così alcune società statunitensi che avevano investito sulla produzione di shale oil assecondando l’intento geopolitico di ridurre la dipendenza degli Stati Uniti dall’OPEC, stanno chiudendo i battenti di fronte all’insostenibilità di sostenere i margini con un prezzo del petrolio molto più basso.

Diverso é il discorso per i grandi paesi produttori dove gli operatori sono controllati dallo stato e dove le esportazioni petrolifere rappresentano una quota rilevante delle esportazioni e del Pil.

In questi paesi, dal Medio Oriente all’ex Unione Sovietica fino ai produttori africani e sudamericani, la riduzione dei prezzi del greggio significa un peggioramento improvviso della bilancia commerciale, contrazione economica e soprattutto riduzione del gettito per le casse pubbliche.

In tre anni di prezzi stabilmente elevati, i governi dei paesi produttori hanno sempre fatto più affidamento sui proventi delle attività petrolifere per finanziare spesa pubblica e garantirsi il consenso mentre oggi, mancando la capacità di mantenere livelli di spesa adeguati, si rischia di creare malcontento e instabilità politica.

There is no alternative: o si tagliano i prezzi o si tagliano i volumi.

Storicamente per “difendere il prezzo”, il cartello dei produttori OPEC, ha agito sulla seconda possibilità, soprattutto attraverso la variazione della produzione dell’Arabia Saudita, che vale circa 11,5 Mbbl/g. In questi mesi però, i sauditi hanno deciso di non intervenire, preferendo difendere le quote di mercato e cercando di rendere non sostenibile la produzione non convenzionale statunitense che non può reggere un prezzo di 40 $ al barile.

La “petrodipendenza” sta obbligando i paesi produttori a riscrivere in deficit il proprio budget e a tagliare la spesa: le entrate derivanti dall’estrazione e dall’esportazione di materie prime nei casi limite arrivano a rappresentare il 95% dell’export e 80-90% delle entrate dello stato.

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Esplosiva ad esempio é la situazione del Venezuela con riserve di valuta straniera sempre più esigue e l’inflazione al 60%: il prezzo dell’oro nero é ben lontano dal prezzo ideale che il greggio dovrebbe avere per Caracas, 118 dollari a barile.   

Guardando a est anche l’Iran - che in periodi di vacche grasse ha approfittato di meno dei prezzi alti in ragione delle sanzioni internazionali imposte alla Repubblica Islamica – non sorride e il presidente iraniano, Hassan Rohani, alla televisione di stato iraniana ha perentoriamente dichiarato che:        

“Coloro che hanno pianificato di abbassare i prezzi del petrolio nei confronti di altri paesi rimpiangeranno la loro decisione. Se l’Iran soffre il calo dei prezzi del petrolio, si sappia che gli altri produttori di petrolio come l’Arabia Saudita e il Kuwait soffriranno più di noi”.

Secondo alcuni analisti il prezzo potrebbe raggiungere fino a 42 dollari al barile nella primavera del 2015 e queste previsioni fanno naturalmente paura.

La Russia che negli ultimi mesi ha dovuto fare i conti anche con la “crisi del rublo” vede assottigliarsi sempre di più le pur ingenti riserve di valuta straniera e secondo le stime governative con un prezzo del petrolio di 60 dollari al barile il PIL andrebbe incontro a una contrazione del 4,5%. I precedenti storici non son incoraggianti: le basse quotazioni di metà anni Ottanta accelerarono la fine del “socialismo reale” sovietico, mentre quelle di metà anni Novanta portarono al default del 1998. Se la contrazione dei prezzi dovesse continuare, il rischio é che il governo russo si troverà costretto a tagliare la spesa pubblica minando alla base “la macchina del consenso” di Putin.

In Africa invece é la Nigeria, I^ economia africana nel 2014 ad aver rivisto il budget a fine anno considerando il prezzo del petrolio intorno ai 65 dollari a barile e sarà fisiologica una flessione del PIL così come le riserve di valuta già in partenza meno importanti, si assottigliano sempre di più.

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Anche in questo caso le visioni sono contrastanti.

Molti fanno notare come un prezzo di 40 dollari a barile possa mettere a rischio gli investimenti delle major petrolifere, minare le finanze dei Paesi emergenti esportatori e quindi ripercuotersi sull’economia globale: va bene prezzi a buon mercato ma se il greggio affonda può trasformarsi in boomerang.

Gli esempi della storia recente non mancano come il crollo di Wall Street del 1987, la recessione globale del 1991, lo scoppio della bolla internet del 2001 e la crisi del credito nel 2008.

Altri analisti sono invece convinti che non si tornerà più ai 100 dollari al barile, una situazione considerata anomala e insostenibile.

 

Oggi ci troviamo in una zona grigia e nel lungo termine i prezzi di equilibrio saranno più bassi, massimo 75-80 dollari e sarà comunque difficile tornare sopra ai 65$ in maniera stabile. La ragione sta nel fatto che la capacità di produzione di petrolio é cresciuta a tassi senza precedenti generando necessariamente la caduta dei prezzi. Al momento la capacità produttiva (e non la produzione) mondiale ammonta a 101 milioni di barili di petrolio al giorno contro un consumo pari a 92 mln. Certo si fa notare come la capacità produttiva non utilizzata non é una scelta ma nasce da ragioni di instabilità politica e di tensioni internazionali (vedi Iran, Siria, Iraq, etc.) così come però nel 2020 si prevede una capacità di 110 mln di barili, considerata incompatibile con qualsiasi domanda anche per la rapida diffusione di tecnologie a risparmio energetico in tutti i campi della quotidianità e nella sensibilità obbligata nei confronti dell’ambiente.

Nel breve periodo a spingere di nuovo verso l’alto i prezzi potrebbero essere due fenomeni: la crescita della domanda più forte del previsto, stimolata anche dai prezzi bassi o una riduzione dell’offerta, per la destabilizzazione di un paese esportatore di peso o per una riduzione della produzione non convenzionale a causa dei minori investimenti.

La situazione però é sempre più complessa come ha fatto notare Christine Lagarde, Direttore del Fondo Monetario Internazionale dichiarando che é inutile aggrapparsi alle false speranze:

“Nonostante la spinta dei prezzi del petrolio bassi e una più solida crescita statunitense, vediamo una ripresa globale che continua ad affrontare venti contrari molto forti. Se si guarda al quadro globale gli Stati Uniti sono probabilmente la sola, grande economia che riuscirà ad andare controcorrente quest’anno, mentre la crescita rimane molto bassa nella zona euro e in Giappone.

Dal canto loro le economie emergenti, che un paio di anni fa sono state il motore della crescita, stanno rallentando. In termini relativi, certo, ma rallentano.”

 

La solita storia? 

 

Fonte: a cura di Exportiamo, di Antonio Passarelli, redazione@exportiamo.it

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